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Blindare la Costituzione


di Felice Mill Colorni


             Dicevamo nel numero scorso che solo grazie a una momentanea saturazione per la ciarlataneria populista di una maggioranza di nostri concittadini non abbiamo oggi una costituzione da repubblica delle banane (cioè la “porcata al cubo” berlusconian-calderoliana approvata nella scorsa legislatura e bocciata nel referendum del giugno 2006 sull’onda della sconfitta alle politiche dei suoi proponenti). Non ancora per molto, probabilmente.

Dopo cinque anni di ciarlataneria populista, la priorità assoluta del cosiddetto “centrosinistra” (cioè di tutto quel che restava fuori dalla coalizione berlusconiana) avrebbe dovuto essere chiara: mettere al riparo la Costituzione, le regole del gioco e le libertà fondamentali dal rischio di una loro nuova messa in discussione da una possibile rivincita di una maggioranza populista, come richiesto da autorevoli appelli.

            Invece i sette nani (o quattordici, o trenta: dopo la grande “unificazione” nel Pd abbiamo perso il conto dei partitini e dei sottogruppi in cui si sta spappolando il “centrosinistra”) si occupano d’altro; e sembrano già essersi stufati del loro nuovo giocattolo, dopo nemmeno un anno e mezzo. Stanchi di doversi dimenare ogni giorno come tarantolati per farsi notare nella crescente folla degli altri subleaders, in modo da far rimarcare a se stessi e al mondo che esistono nonostante facciano parte di una maggioranza, sembrano ormai intenzionati a rigenerarsi e ritemprarsi in un bel bagno di opposizione: fino a qualche settimana fa sembravano anzi intenzionati a ripassare direttamente la mano con nuove elezioni all’allegra combriccola di Berlusconi, Bossi, Fini, Buttiglione (e Dell’Utri, Previti, Schifani, Gasparri, Borghezio, Calderoli, Giovanardi, ecc. ecc.); ora le cose sembrano più complicate per effetto delle ultime alzate di testa di Berlusconi e dei nuovi fumetti televisivi che ultimamente sembra prediligere come intimi sodali. Staremo a vedere. Resta che a riaprire i giochi è stata prima di tutto la gran voglia del “centrosinistra” di cambiare giocattolo. La prospettiva, palesemente, li allettava e ancora li alletta.

Alletta la sinistra ribattezzata “radicale”, cioè quella onirica e veterocomunista, divisa fra le celebrazioni del Glorioso Ottobre Rosso a Mosca, le rimpatriate con il dittatore della Bielorussia, le visite ai santuari del “Che” e a quelli del monte Athos o ai monaci di Assisi, e le esortazioni a fermare il mondo per consentir loro, se non di scendere, almeno di concedere una pausa ai loro cervelli e una pensione (retirement, collocamento a riposo) ai loro elettori cinquantenni: non che si siano molto sforzati di far finta di far parte di una coalizione, in questi mesi, ma almeno, una volta formalmente all’opposizione, nessuno pretenderà più di far loro notare le incongruenze, e magari si potranno anche dedicare a ritrovare un’intesa con la frazione moderata della componente trotzkista.

La prospettiva di passare la mano alla destra populista è sembrata a tratti allettare non meno la nuova leadership del Pd, che pure ha alternato per mesi in materia oracoli di controversa e incerta interpretazione. Dato per scontato che il prossimo turno era ormai aggiudicato a Berlusconi, meglio presentarsi da soli alle prossime elezioni politiche, andare a una sconfitta certa ma anche scontata e però intanto diserbare un po’ il campo, accreditarsi come i soli titolari del secondo polo del sistema (il comunismo onirico della “Cosa rossa” essendo stato eletto da tempo, di comune accordo con la destra, a sola terza alternativa possibile) e prepararsi per una tornata successiva: prima è meglio è, dato che di opporsi alla delegittimazione dell’attuale maggioranza non sembra più aver voglia nessuno. (A Berlusconi comunque va meglio che eventuali elezioni anticipate si tengano dopo giugno, perché così sarebbe quel Parlamento a eleggere il prossimo Presidente della Repubblica).

Dopo l’alzata d’ingegno di Berlusconi, alla leadership del Pd si sono aperte nuove prospettive, e sembra proprio che un nuovo furbissimo allocco stia per rinverdire i fasti di un suo altrettanto astuto predecessore a spese nostre, della democrazia italiana e della decenza, come illustra nel suo editoriale il direttore di Critica.

Quel che pare accomunare tutti gli attori del “centrosinistra” è l’indifferenza per la democrazia liberale, di cui è prova e manifestazione l’ormai avvenuta piena legittimazione di Berlusconi e della sua coalizione come normale avversario, paragonabile alle normali coalizioni di centrodestra d’Europa. Basta con le “demonizzazioni”: riscriviamo assieme le regole del gioco e Berlusconi sarà ben contento di rispettarle in futuro. Per l’ennesima volta illudiamoci che le garanzie formali del costituzionalismo liberale e il rispetto delle normali regole di decenza della vita civile occidentale siano in fondo una fisima trascurabile in Italia, a fronte della soddisfazione da parvenus di avere le mani in pasta e dell’illusione di poter sostituire le garanzie formali con quelle, ben più solide agli occhi e nei riflessi spontanei degli ex comunisti, derivanti dalla compartecipazione alla stesura delle regole e alla spartizione del “potere reale” con l’Alieno.

Questa illimitata apertura di credito è il vero trionfo di Berlusconi. Isolato quasi ermeticamente il paese e senza che quasi nessuno se ne accorga dal resto dell’Occidente europeo dopo un quindicennio di full immersion mediatica in un’artificiosa atmosfera di tranquillizzante normalità, lo stesso Pd pare intenzionato a ristrutturarsi “a sua immagine”: a mutuare dal berlusconismo non solo moduli organizzativi e subalternità al clericalismo cattolico estremista, ma anche quell’estraneità alla democrazia liberale che un po’ alla volta è ridiventata senso comune degli italiani. Non c’è neppure molto da stupirsi se importanti componenti del nuovo Partito democratico ne hanno assorbito l’assenza di senso storico, la tiepidezza europea, e, in sedicesimo, perfino un’analoga propensione all’occupazione estensiva della cosa pubblica e all’identificazione fra politica e affari. E non c’è da stupirsi se la principale doglianza nei confronti di Berlusconi da parte della sinistra onirica sia un suo immaginario e fiabesco liberismo, che, se esistesse, lo accomunerebbe semplicemente ai normali governanti europei di questi anni.

Forse bisogna arrendersi all’evidenza. L’arrendevolezza a tutto quel che Berlusconi incarna di antieuropeo e di antiliberale è un nuovo capitolo dell’“autobiografia della nazione” e della sua plurisecolare vocazione servile: una vocazione servile sconfitta solo in pochi momenti negli ultimi due secoli, momenti che non a caso sono tutti oggetto da un quindicennio di “revisioni” liquidatorie e svalutazioni non solo da parte dei più entusiasti corifei del berlusconismo. Normale, quindi, per la larga maggioranza della classe politica italiana e degli elettori, la prospettiva di tornare ad essere governati da uno che, chiamato a testimoniare in un processo di mafia, si è avvalso della facoltà di non rispondere; normale riscrivere con lui le regole del gioco e magari governare o sottogovernare con lui in nome di qualche nuova “emergenza” politico-mediatica. Normale essere governati o governare assieme ad uno i cui due principali collaboratori e amici non solo politici sono stati condannati rispettivamente per corruzione di magistrati e per mafia. Normale essere governati o governare assieme ad uno che si vanta di essere stato a sua volta prosciolto – per accorciamento dei termini di prescrizione unito alla concessione delle attenuanti generiche o per amnistia, votati dalla sua maggioranza parlamentare – da imputazioni che nel resto dell’Occidente sarebbero considerate infamanti. Normale essere governati – caso anche questo assolutamente unico nell’Occidente europeo, ma per gli italiani è ridiventato del tutto normale – da un partito che ha le sue radici nel fascismo storico; e magari condividere anche con loro la riscrittura delle regole e qualche “emergenza democratica”. Normale avere come partner di governo un partito ormai ben più apertamente razzista e xenofobo di quello di Haider e certo non meno di quello di Le Pen. Normale la presenza al governo in posizione culturalmente egemone di clericali estremisti – che, anzi, ci fanno la figura di ala moderata di una coalizione di destra e di ala non impresentabile di una possibile coalizione di “centro”: in Italia, ma non nel resto d’Europa, come dimostrò la bocciatura di Buttiglione a commissario europeo proprio negli stessi giorni in cui politici e media italiani, e solo loro nell’Europa occidentale, denunciavano invece come estremista l’agenda laica del programma di Zapatero. Normale chiamare tutta questa roba e questi alieni con cui si vogliono riscrivere le regole fondamentali della vita civile “centrodestra”. Normale che, anche alle prossime elezioni, fare propaganda elettorale in televisione significhi per uno dei contendenti effettuare una partita di giro e per gli altri finanziare l’avversario (sorry, il competitor, come si dice in anglo-meneghino, con fairness più adeguata ai tempi).

Per chi non trovi tutto questo normale, concedere gratuitamente mano libera a gente del genere per l’intero futuro prevedibile di questo disgraziato paese costituisce da parte del “centrosinistra” il massimo dell’irresponsabilità collettiva.

Una volta pienamente legittimato dal Pd, e resi così inservibili tutti gli argomenti di polemica politica capaci di svelarne il carattere di estraneo totale alla civiltà e cultura politica dell’Occidente liberale e democratico, ottenuto tutto quel che avrà voluto in termini di nuove regole costituzionali ed elettorali, Berlusconi (magari nuovamente grazie a Bertinotti) si sbarazzerà di Veltroni esattamente come fece con D’Alema. Il Pd, con le nuove regole elettorali che si prospettano in questi giorni, resterà da solo, come si suol dire, in “braghe di tela”, mentre Berlusconi non avrà difficoltà a sottomettere nuovamente alleati che senza di lui nemmeno esisterebbero e, risolti ormai, per quanto possibile, nella scorsa legislatura i problemi giudiziari suoi e dei suoi sodali, potrà davvero nella prossima dedicarsi a “rivoltare l’Italia come un calzino”, secondo i propositi enunciati ma messi da parte la volta scorsa per bloccare il Parlamento per un’intera legislatura a produrre le “leggi-vergogna”. Questa volta Berlusconi non avrà neppure più scuse con la Lega.

              Invece di baloccarsi con l’ennesimo, inessenziale, tentativo di riforma costituzionale concordata, destinato comunque ad essere travolto nella prossima legislatura, la prima, la più essenziale delle riforme che questa legislatura dovrebbe produrre prima della sua fine è proprio, all’opposto, la messa in salvaguardia delle regole più elementari e delle garanzie costituzionali: approvando finalmente una vera legge sul conflitto d’interessi, mettendo fine alla scandalosa disapplicazione della sentenza della Corte costituzionale sulla terza rete di Berlusconi, ma, soprattutto adeguando i quorum di garanzia previsti dalla Costituzione del ’48, tutti fissati sulla base del tacito e scontato presupposto che la legge elettorale sarebbe stata perfettamente proporzionale. Oggi, caso quasi unico fra le democrazie liberali, è possibile, a chi semplicemente vinca le elezioni politiche, riscrivere sulla base dei propri esclusivi interessi le leggi elettorali (come appunto fece Berlusconi nelle ultime settimane della scorsa legislatura, per avvelenare, con successo, i pozzi ai successori); cambiare la Costituzione (salva l’eventualità di un referendum – il cui esito com’è ovvio dipende più dal clima politico che dagli ostici contenuti della riforma), eleggere, autonomamente dopo il terzo scrutinio, un Presidente pur concepito dalla Costituzione vigente come garante e ottenere da un Presidente così eletto la nomina di cinque giudici costituzionali: aggiungendoli a tre dei cinque giudici di nomina parlamentare, una maggioranza spregiudicata può così determinare la maggioranza dei giudici costituzionali, diventando di fatto padrona quasi assoluta della Costituzione senza neppure assumersi formalmente la responsabilità di cambiarla. E, disponendo del 60% dei seggi nel Parlamento riunito, cosa tanto improbabile con la proporzionale quanto probabile con un sistema maggioritario o con quello ora in discussione (e quasi certa se invece verrà approvato il referendum già pendente), la maggioranza può teoricamente nominare anche tutti i cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare, e tutti i membri non togati del Csm fin dal primo scrutinio.

È proprio, e solo, a causa del mancato adeguamento dei quorum costituzionali che la “legge truffa” del 1953 poteva effettivamente meritare quel nome.

Quali che siano i risultati della trattativa in corso, la priorità assoluta di chiunque non sia un perfetto irresponsabile dovrebbe essere questa: nessuna riforma della Costituzione o delle leggi elettorali in futuro senza l’accordo di almeno i due terzi dei membri delle Camere, cioè di maggioranza e opposizione (e magari, visto che si dice che ormai siamo o dobbiamo diventare uno Stato federale, anche di tre quarti dei Consigli regionali, come negli Usa). Nessuna elezione degli organi di garanzia senza un quorum analogo: si ripristini piuttosto la prorogatio in carica dei giudici costituzionali, avventatamente soppressa con la riforma del 1967.

Tutto questo renderà difficile qualunque riforma della Costituzione? È possibile. È anche vero che noi non crediamo che la priorità siano le riforme costituzionali, e non perché pensiamo che la Costituzione vigente non abbia difetti o non sia ormai bisognosa di importanti aggiornamenti. Fra il ’46 e il ‘48 fu anche una forte diffidenza reciproca (che oggi sappiamo quanto giustificata) che portò forze politiche di ispirazione prevalentemente autoritaria ad adottare una Costituzione che, con tutti i suoi limiti e con tutta la sua ingenua retorica, aveva quanto meno un taglio decisamente garantista. Non solo il proposito di rovesciare l'orientamento illiberale impresso alla legislazione italiana dal fascismo, ma anche una ben fondata paura reciproca, il cui peso va riconsiderato in tutta la sua importanza alla luce delle rivelazioni degli ultimi vent’anni sui retroscena della pluridecennale “guerra civile virtuale”, indusse democristiani e socialcomunisti, nell'incertezza sui rapporti di forza che sarebbero emersi dalle successive tornate elettorali, ad elaborare una carta dei diritti quanto più dettagliata e comprensiva, robuste garanzie in materia di tutela dei diritti costituzionali dei cittadini ed un forte sistema di freni e contrappesi. C’è oggi da tremare all'idea di una riscrittura dalla Costituzione, che incida sui diritti individuali – direttamente o per effetto dello stravolgimento delle garanzie costituzionali provocato da un mutamento del sistema dei freni e contrappesi fra i poteri – ad opera di una classe politica non solo complessivamente di infimo livello, ma anche di nuovo estranea come allora, anche se per ragioni diverse, alla cultura liberale, e non più frenata da analoghi salutari timori reciproci.

 Noi crediamo che l’arretratezza italiana abbia cause ben più profonde della mancata riforma costituzionale. Non c’è riforma istituzionale, costituzionale o elettorale che tenga, se la maggioranza degli italiani continua a votare per forze politiche estranee alla democrazia liberale e ai suoi principi più elementari.

Ma ammettiamo pure che una riforma costituzionale sia necessaria e urgente. Se un malato ha bisogno di un’operazione di cardiochirurgia e non sono disponibili validi cardiochirurghi, questa non è una buona ragione per farsi operare a cuore aperto, in mancanza di meglio, da una squadra di idraulici.

In questo Parlamento non c’è la maggioranza necessaria per rafforzare la rigidità della Costituzione e mettere così in salvaguardia le garanzie costituzionali vigenti? Che Berlusconi si assuma la responsabilità di dire che si oppone: che vuole restare libero, nonostante le promesse unanimi degli scorsi mesi, e pur dopo le modifiche che magari riuscirà ad incamerare già in questa legislatura grazie agli apprendisti stregoni del Pd, di impadronirsi ancora, unilateralmente e ad libitum, delle regole del gioco. Almeno sarà più chiaro per chi e per che cosa voteremo la prossima volta.

Da Critica liberale, n. 143, settembre 2007.


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