Home

Scritti

Mail


Le conseguenze (inintenzionali?) della “rottamazione” e del federalismo interno

di Felice Mill Colorni

Vi è piaciuta la banda di Fiorito? È più o meno quel che ci aspetta su larga scala nei prossimi anni come conseguenza inintenzionale dei rimedi che pretende a gran voce il senso comune populista.

L’orgia di scandali che ha sommerso la Regione Lazio e molte altre amministrazioni regionali almeno un merito l’ha avuto: cominciare a intaccare l’idea, fino a ieri fortissima per il senso comune, secondo cui il malaffare della politica italiana avrebbe il suo fulcro nel “centralismo romano”, mentre il potere locale, e soprattutto quello delle regioni, sarebbe relativamente meno corrotto, più sano, più controllabile perché “più vicino” ai cittadini, e sarebbe quindi il migliore rimedio a molti mali del paese.

“Più vicine” le regioni lo sono senz’altro. Ma solo in linea d’aria. La vicinanza geografica non ha niente a che fare con la controllabilità del potere. E del resto i cittadini, abbandonati a se stessi, e in assenza di un establishment, politico e no, che sia capace di fare da filtro alla ciarlataneria politica, la cialtroneria non si può pretendere che siano in grado di identificarla da soli. Lo dimostra inequivocabilmente la storia italiana del funesto diciottennio berlusconiano, ma il fenomeno è purtroppo molto avanzato anche in molte altre democrazie occidentali (a cominciare dalla stessa democrazia americana, come si è visto negli otto disastrosi anni di presidenza Bush Jr.).

Il potere politico si può controllare solo in presenza di quei forti freni, contrappesi, garanzie formali, regole e controlli che costituiscono la quintessenza del costituzionalismo liberale: tutti fortemente attenuati e depotenziati nell’Italia degli anni di fango dal prevalere della moda del federalismo interno e della retorica del decisionismo plebiscitario. Dare agli elettori la possibilità di affidarsi a un capataz – questo invece il Leitmotiv di “innovatori” furbetti e apprendisti stregoni – sarebbe la migliore garanzia per poterlo poi giudicare sulla base dei risultati. Devolution alla massima potenza, riforma del Titolo V irresponsabilmente voluta dal centrosinistra di D’Alema, attenuazione dei controlli istituzionali. Dettagli a parte, sulla direzione di marcia erano concordi quasi tutti.

E per ottime ragioni, dal loro punto di vista. Questo finalmente dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti. Le regioni sono state in tutti questi anni il pozzo nero della finanza pubblica e il bengodi per il finanziamento clientelare o illegale della politica – o, il che non è molto diverso, per il furto legalizzato su scala industriale.

Non è difficile capire il perché. Spostare nelle regioni la possibilità di redistribuire risorse pubbliche significava, per tutti i partiti interessati, trasferire il fulcro del malaffare in una zona meno illuminata e relativamente protetta. Se l’occhio dei media è sempre, necessariamente, fissato sul potere centrale e sul Parlamento, in sede locale i media sono meno numerosi e in genere ancor meno indipendenti dalla politica, lo scrutinio da parte di personale competente sul rispetto delle procedure necessariamente molto più superficiale, i rapporti fra controllori e controllati meno anonimi e più facilmente inquinati dalle reti di conoscenza e professionali.

Le regioni si prestano alla perfezione a uso clientelare: creature più artificiali dei comuni – e anche delle province – la loro attività è in genere seguita e conosciuta solo dagli stakeholders, vulgo clientele, che si interessano solo a quel che strettamente li riguarda. Spesso, come nel caso del Lazio, perfino le loro sedi sono periferiche, lontane dall’attenzione del pubblico e dei media.

Intanto, anche all’insegna di “Roma ladrona”, venivano diffusi nel paese umori antiparlamentari simili a quelli di un secolo fa, alimentati simultaneamente, e come allora, da destra e da sinistra. Concorrendo con i comportamenti osceni di gran parte dell’attuale ceto politico a diffondere un discredito diffuso che sta creando le premesse per una spirale senza fondo di degrado anche futuro, dato che in questo modo i migliori e i più onesti, salvo eccezioni, si terranno sempre più alla larga dalle future competizioni elettorali.

Perfino dopo la rivelazione del degrado estremo e delle dilapidazioni senza fondo che hanno per scenario le regioni, una delle grandi misure moralizzatrici che vengono ora proposte consiste nel fissare, per lo stipendio dei consiglieri regionali, un tetto massimo pari all’indennità parlamentare: quasi che un consigliere regionale (salvo pochissimi casi estremi in regioni particolarmente carenti di infrastrutture) dovesse affrontare, per svolgere le sue funzioni, spese paragonabili a quelle di un parlamentare (salvo che eletto e residente a Roma o nei paraggi) e avesse bisogno, come un parlamentare, di due abitazioni, di due uffici, e di compiere settimanalmente viaggi a medio raggio.

La retorica sul federalismo interno ha prevalso così a lungo che neppure lo scoperchiamento del verminaio è riuscito a imporre all’attenzione la questione centrale. La prima amministrazione regionale, quella della Sicilia, era stata istituita nel 1946, prima ancora della nascita della Repubblica e dell’elezione dell’Assemblea costituente, allo scopo di debellare la ribellione armata del separatismo siciliano: il suo statuto ricalcava l’organizzazione di un mini-Stato. Così anche le successive regioni a statuto speciale avevano seguito, sia pure con attenuazioni, quello stesso modello. E quando poi, con più di vent’anni di ritardo, si diede vita alle regioni a statuto ordinario, quello stesso modello non fu più posto in discussione, facendo delle regioni, ormai di tutte le regioni, degli staterelli dotati di strutture politico-burocratiche elefantiache, anziché degli enti locali simili a grosse amministrazioni provinciali, pur se dotate anche di limitate competenze legislative.

E si noti che, all’epoca, i livelli di governo territoriale erano quattro, dato che non si era accettata l’idea di sopprimere le province contestualmente all’istituzione delle regioni ordinarie. Dal 1979, con l’elezione diretta del Parlamento Europeo e con l’attribuzione alle istituzioni europee di molte funzioni precedentemente espletate dallo Stato, i livelli sono diventati cinque (o perfino sei, nei comuni in cui esistono ancora i consigli rionali).

Se pure i consiglieri regionali delle altre regioni non potevano fregiarsi, come quelli siciliani, del titolo di “onorevoli” – cosa che già negli anni Settanta sarebbe stata ormai troppo facile bersaglio di una spietata satira politica – ai consiglieri venivano però attributi trattamenti e status più simili a quelli dei parlamentari che a quelli dei consiglieri comunali e provinciali, i consigli si atteggiavano a parlamentini, le giunte a piccoli consigli dei ministri – e alla fine, con la loro elezione diretta, i presidenti delle giunte divennero, nel linguaggio servile e corrivo dei media, i “governatori”. Intanto le burocrazie regionali crescevano in parallelo metastaticamente e la cornucopia delle aziende, enti, società partecipate o controllate diventava una voragine capace di sottrarsi perfino a ogni tentativo di censimento, e di ingoiare, a scopo per lo più clientelare e per inettitudine, porzioni sempre più smisurate di denaro dei contribuenti.

Forse adesso, con il passare delle settimane, la consapevolezza della sproporzione fra il costo della politica regionale e quello degli altri livelli di governo territoriale comincerà a farsi strada. Staremo a vedere.

C’è invece un altro elemento che è ancora molto lontano dall’essere entrato nella consapevolezza diffusa, e che è pure più difficile che venga a galla, anche perché occultato dalla casuale circostanza che il principale e più pittoresco protagonista dello scandalo laziale è un obeso dalla barba precocemente ingrigita.

L’età degli obesi è spesso difficile da decifrare, ed è così passato abbastanza inosservato il fatto che Franco Fiorito abbia 41 anni. Egli appartiene cioè a quella classe di età nel cui passaggio ai posti di comando il senso comune diffuso vede una delle più promettenti garanzie di rinnovamento. L’avvento di tanti nuovi Fiorito sarà la conseguenza certa di una “rottamazione” della classe politica alla Renzi, di un ricambio affidato cioè a criteri essenzialmente biologici e anagrafici (un po’ come i “tagli lineari” di Tremonti), anziché fondato su discriminanti politiche.

In effetti Fiorito una certa ondata di rinnovamento e di dinamismo l’ha portata nell’amministrazione regionale del Lazio, anche se in una direzione discutibile. Così come era accaduto in occasione dell’altra grande ondata di rinnovamento biologico e generazionale, e di deprofessionalizzazione, della politica italiana: quella dovuta alle elezioni del 1994 e alla nascita sfolgorante del berlusconismo. Fu quello il momento del più profondo ringiovanimento della classe politica italiana nell’intera storia repubblicana. E fu il momento in cui si verificò il più massiccio travaso di personalità e di carriere dalla società civile alla classe politica. Con i bei risultati che si sono visti. Pare che non sia bastato.

Non era neppure stata la prima volta, nella storia del Novecento, in cui si fosse fatto affidamento sulle virtù palingenetiche di un ricambio meramente biologico e anagrafico: era già accaduto con l’avvento del fascismo (“Giovinezza, giovinezza  …”), e con l’ascesa alla testa dell’esecutivo del più giovane Presidente del Consiglio che l’Italia avesse mai avuto: Benito Mussolini. Ma si tratta di una prassi comune a tutti i movimenti totalitari.

Con questo non si vuol certo dire che la classe politica italiana non abbia bisogno di un profondissimo rinnovamento, o che i giovani – come le donne, come le minoranze etniche o sessuali – non vi siano scandalosamente sottorappresentati.

Quel che si vuol dire è che il rinnovamento di cui avremmo disperato bisogno è un rinnovamento politico, non biologico. La qualità media della classe politica giovanile dei partiti maggiori non sembra oggi per nulla migliore della qualità media della classe politica adulta o anziana (l’eccezione è apparentemente costituita dai movimenti giovanili di quei partiti e gruppi relativamente piccoli che hanno fondato la loro diversità su una discriminante fondata anche sull’etica pubblica, ma staremo a vedere). E non per caso: con il discredito che viene sparso da anni, a piene mani, nei confronti della politica e dell’idea stessa della rappresentanza politica, a pensare di dedicarsi alla politica, soprattutto fra i giovani – e con le luminose eccezioni che non mancano mai, neppure nelle situazioni di maggiore degrado – saranno sempre più quelli come Fiorito, quelli che si dedicano alla politica perché la politica italiana di oggi, così com’è, gli piace proprio. Gli piace, gli si confà, così come l’hanno conosciuta nel diciottennio di fango. Dopo tutto è la sola che hanno conosciuto da adulti gli italiani oggi under 40.

Non si vede del resto come potrebbe essere altrimenti. Diciotto anni di intensiva e quotidiana diseducazione civica di massa non possono restare senza effetti, come pensano forse i tantissimi che hanno irresponsabilmente sottovalutato le conseguenze, anche a lungo termine, dell’estremo degrado civile degli anni di fango. Come abbiamo spesso fatto rilevare, il berlusconismo ha agito così in profondità e inavvertitamente, e ha provocato danni antropologici così devastanti – in un paese che era già molto arretrato in precedenza di suo – che soltanto una piccola minoranza della generazione formatasi in questi anni può verosimilmente essersi sottratta al generale imbarbarimento. Un imbarbarimento pari a quello che altrove – e nell’Italia del Novecento – solo le grandi esperienze totalitarie erano state capaci di produrre. È verosimile che, con le solite immancabili e splendide eccezioni individuali, quasi un’intera generazione di futuri politici sia stata perduta, in modo probabilmente irreparabile, alla causa della democrazia e della vita civile. Non solo quella oggi al potere, ma anche quella che dovrebbe fisiologicamente succederle.

Non sarà un rinnovamento meramente biologico a salvarci. Tanto meno un rinnovamento anagrafico realizzato con i criteri dello showbiz, di cui già abbiamo avuto qualche episodica anticipazione in precedenti tornate elettorali ad opera di un impresario televisivo o cinematografico che per qualche mese era stato posto dal Pd alla guida – si fa per dire – dell’“opposizione”.

Quel che a nostro avviso serve davvero l’abbiamo detto e ripetuto parecchie volte: voltare esplicitamente pagina rispetto al diciottennio di fango, puntare tutto sull’europeizzazione dell’Italia e sulla ripresa del progetto europeo, restaurare le regole del gioco nella politica e nell’economia, allentare la presa di una politica corrotta sulla vita economica e civile, combattere le corporazioni per riattivare la mobilità sociale e l’equità, restaurare una vera laicità delle istituzioni che garantisca agli individui diritti di autodeterminazione e pari dignità sociale.

Ben vengano, a darvi sostanza, politici nuovi – uomini o donne, giovani o anziani, bianchi o neri, etero o gay –  ma non pensino gli attuali padroni della politica italiana di cavarsela presentandoci liste di giovani candidati alla Fiorito, o di suoi coetanei scelti con criteri da campagna pubblicitaria. Scelti, magari, in modo da unire l’utile al dilettevole, e sbarazzarsi così anche, in un colpo solo, di quelli che potrebbero dopo un po’ (in genere non alla prima o alla seconda legislatura) rivelarsi credibili e possibili competitori interni, capaci di minacciare davvero le posizioni dei massimi responsabili dell’attuale sfacelo. Per sostituirli con giovanotti e giovanotte cooptati, e a loro devoti a vita per essere stati da loro cooptati, per di più in tempi di disoccupazione giovanile dilagante.

Da Critica liberale, n. 202, settembre 2012

Share   

Creative Commons License
I file pubblicati su questo sito da Felice Mill Colorni sono rilasciati con licenza
Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Diritti di utilizzo ulteriori possono essere richiesti a http://www.felicemillcolorni.it/Contatti.html.



Home

Scritti

Mail