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Liberalismo e liberismo


di Felice Mill Colorni

Non può esistere società liberale senza economia di mercato, perché il mercato si è dimostrato, senza possibili confronti, lo strumento più efficace per creare le condizioni di benessere diffuso necessarie allo sviluppo umano e perché l’alternativa è il completo controllo del potere politico sulla società: una prospettiva totalitaria, come qualcuno aveva visto prima ancora della rivoluzione d’Ottobre. Chi lo nega coltiva un’idea temerariamente ingenua della democrazia, di ascendenza spinoziana (precedente cioè l’esperienza democratica moderna), che volontariamente ignora che alla fine il potere politico è sempre esercitato da individui concreti, per poter controllare e controbilanciare il potere e gli abusi dei quali non si può rinunciare all’esistenza di altri poteri, forti e da loro indipendenti. Da solo, il carattere pubblico e democratico del potere politico non garantisce per nulla il suo utilizzo a fini di pubblica utilità. Un potere politico padrone anche del potere economico – come o più di un potentissimo imprenditore dei media che si impadronisca “democraticamente” del potere politico – non tarderà a manipolare la formazione del consenso e a manomettere le regole del gioco.

Nel protoliberalismo di John Locke, la parola “proprietà” includeva «vita, libertà e patrimonio». «Ciascun essere umano ha la proprietà sulla sua propria persona». La proprietà come garanzia di libertà nei confronti del sovrano. Non è difficile vedere in quest’idea l’ascendente diretto delle rivendicazioni contemporanee di sovranità di ciascun individuo sul proprio corpo, ben prima che dell’anarco-capitalismo, ma una società liberale deve essere comunque “poliarchica” (concetto seicentesco, riproposto negli anni Cinquanta da Robert Dahl, e di cui qualche giornalista italiano ignorante o servile ha attribuito il conio all’attuale pontefice che l’ha utilizzato in una sua enciclica). È in questo senso ed entro questi limiti che erano fondate le polemiche di Einaudi contro Croce e di Hayek contro Kelsen. Sbagliavano però a identificare liberalismo e liberismo o a considerarli quasi sinonimi.

Ci possono essere e ci sono stati regimi politici autoritari e liberticidi disposti a perseguire politiche economiche anche radicalmente liberiste. Raramente il liberismo ha trionfato di più che nel regime di Pinochet, nelle odierne Singapore e Hong Kong, o nelle regioni costiere dell’attuale Cina comunista. Se non distinguessimo fra liberalismo e liberismo, dovremmo definire liberali, almeno pro parte, regimi autoritari o totalitari come questi: come si fa infatti da una trentina d’anni in Francia, dove il vocabolo “liberista” non esiste – come altrove (esiste solo in italiano) – ma dove libéral è purtroppo diventato sinonimo di assenza di regole in economia, e non di limitazione dei poteri, diritti umani e rule of law.

Il livello di tutela delle libertà liberali non è mai stato meccanicamente e inversamente proporzionale al livello di regolamentazione del mercato o della pressione fiscale, che non determina il carattere aperto e liberale di una società, almeno finché consente l’esistenza dell’economia di mercato e di forti contropoteri privati nella società, non dipendenti dal potere politico. Semmai, una certa regolamentazione è vitale per il funzionamento e la sopravvivenza stessa del mercato.

La determinazione di quanto essa debba essere penetrante è opinabile, in relazione alle teorie economiche, agli obiettivi di equilibrio e di politica sociale, al concreto empowerment di ogni individuo indipendentemente dalle condizioni di origine, ai condizionamenti e obblighi internazionali, ai rischi (sempre in agguato) di abusi politici e burocratici, corruzione, eterogenesi dei fini. Nella storia e nella storia del pensiero i liberali hanno dato risposte molto differenziate, dal liberismo spinto di De Viti de Marco o di Einaudi, al dirigismo oggi improponibile di Hobhouse o Dewey, alle ricette di Keynes che salvarono il capitalismo dopo il crollo del ‘29.

Da Critica liberale, n. 188,  giugno 2011

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