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Radicali: la deriva carismatica

di Eugenio Stuart Cavallotti  (pseudonimo alternativo a Felice Mill Colorni, ben presto abbandonato perché rivelatosi ragione di fraintendimenti)

La prima parte di questa analisi dell’evoluzione del Partito radicale era comparsa nel n. 51, maggio 1999, di Critica liberale.

Si è visto come, dopo l’uscita dal Partito radicale del vecchio gruppo dirigente nel 1963 e la sua rifondazione ad opera del gruppo di Pannella e dei suoi compagni provenienti dall’Ugi, per alcuni anni l’ispirazione politica e ideale del Partito radicale avesse avuto forti tratti filocomunisti, tali che, a rileggere oggi quella vicenda, il Pr dei primi anni sessanta potrebbe apparire segnato da un forte e deciso carattere frontista. Tale stagione si era conclusa nel momento in cui i radicali avevano deciso di impegnarsi pressoché a tempo pieno a favore dell’approvazione della legge sul divorzio e in altre battaglie per i diritti civili, trascurando per parecchi anni quasi del tutto ogni argomento relativo alla politica economica o a quella internazionale. Dopo il periodo in cui tutti gli sforzi dei nuovi radicali erano stati diretti a prendere le distanze dal vecchio partito liberalradicale e pannunziano, si apriva così la stagione probabilmente più felice della storia del Pr, quella destinata a segnare davvero, nella prima metà degli anni settanta, la storia politica italiana e anche la storia della mentalità e del costume.

È la stagione della Lega per il Divorzio, della creazione di uno schieramento di tutti i laici a sostegno della legge Fortuna-Baslini, della sua inaudita approvazione nel 1970 contro l’opposizione della Dc, isolata, assieme al solo Msi, per la prima volta dal ’45 su una legge di grande importanza politica. È la stagione dell’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza, anch’essa determinata dall’iniziativa radicale. È la stagione della storica vittoria divorzista nel referendum abrogativo del 1974, che svela a un paese incredulo i nuovi connotati di un’Italia che l’intera classe politica aveva creduto fermi, nella sostanza, al 1948, all'egemonia culturale e sociale del cattolicesimo integralista. Per rendersi conto di quanto profonda fosse stata allora la presa di coscienza del mutamento intervenuto, basterebbe rileggersi le collezioni dei quotidiani e dei settimanali italiani del periodo precedente e di quello successivo al referendum del ’74: magari i media italiani non guariranno mai del tutto dal servilismo connaturato da secoli a buona parte del mondo intellettuale italiano, ma è impossibile non notare un tono nuovo, un marcato attenuarsi di antichi rituali di ossequio nei confronti del potere politico, una libertà di critica e di satira fino ad allora considerate patrimonio di altre latitudini europee. È questa, ancora, la stagione della battaglia radicale sull’aborto, della centralità politica e sociale delle battaglie per i diritti civili.

Il Partito radicale era ormai conosciuto nel paese. Se, fino al 1973, la sua stessa esistenza, i nomi e i volti dei suoi dirigenti a cominciare da quelli di Pannella, erano noti solo a una ristretta cerchia di addetti romani alla politica e all’informazione, ora il Pr era un soggetto conosciuto e riconoscibile nello schieramento politico, anche se, al di là delle sue singole battaglie, i suoi connotati culturali erano indecifrabili a molti e variamente declinabili anche al suo interno: tanto che fin da allora, nelle sue campagne volte ad ottenere formali iscrizioni, minacciando in caso contrario l’autoscioglimento, il Partito radicale, non diversamente dalle sue “agenzie esterne”, di massa come la Lid, di modeste dimensioni come la Loc (Lega degli Obiettori di Coscienza) o puramente nominali come la Liac (Lega Italiana per l’Abrogazione del Concordato), raccoglieva consensi e adesioni negli ambienti politici e culturali più disparati. Più di altri, i giovani della sinistra liberale di quegli anni, che avevano sperato di veder nascere quel dinamico partito di massa della sinistra liberale che non aveva mai visto la luce in Italia dall’epoca dell’introduzione del suffragio universale, avrebbero avuto di lì a poco di che disilludersi.

Com’è potuto accadere che, dopo soli cinque anni dalle grandi vittorie politiche e sociali sul divorzio e sull’aborto, dopo l’ingresso in Parlamento nel ’76 e dopo il successo elettorale del ’79, il partito anticlericale e dei diritti individuali di libertà, il partito della secolarizzazione e della “società radicale”, si sia potuto riconvertire nel giro di pochi mesi nel partito che ricercava come propri alleati privilegiati il Vaticano e il cattolicesimo antimodernista e reazionario di Giovanni Paolo II nell’improvvisata battaglia, approssimativa quanto megalomane, per sconfiggere niente meno che “la fame nel mondo”, reinventandosi addirittura un’identità tout court “cristiana” se non addirittura cattolica[1]?

E com’è potuto accadere che, nel decennio successivo, il partito “mitterrandiano” (fino al punto di fare proprio il simbolo elettorale del Ps francese) dell’alternativa unitaria di una sinistra rinnovata al “regime democristiano”, visto come il continuatore – per quel che poteva essergli sopravvissuto negli apparati dello Stato e nelle strutture economiche e sociali – del regime fascista, abbia preso per buono il carattere “liberale” dell’alleanza berlusconiana con gli eredi del Msi e con la parte più integralista del mondo clericale, fino a volersi esso stesso parte del “Polo delle libertà”?

Com’è potuto accadere che i liberali temerari che, negli anni cinquanta, propugnavano l’alleanza con il Pci stalinista di allora, abbiano rispolverato l’onorato carnet della critica ideologica liberaldemocratica nei confronti del totalitarismo comunista, per anni snobbato in nome del pragmatismo e delle alleanze politiche incentrate unicamente sui propri “single issues”, proprio quando il comunismo reale era finalmente crollato, e dopo che il Pci aveva deciso di cambiare natura, avviandosi, magari con gravi ed inescusabili ritardi e contraddizioni, sulla strada che gli stessi radicali gli avevano chiesto di imboccare già tanti decenni prima?

E ancora: come è possibile che non solo alcuni professionisti della politica, ma anche un numero non irrilevante di militanti “credenti” e di elettori, abbiano seguito il leader radicale fino ad oggi, spesso accompagnandolo in ciascuna di queste fantasiose metamorfosi?

Queste domande sono più rilevanti di quel che può apparire, perché, lungi dal riguardare il solo percorso compiuto in questi decenni da un soggetto anomalo e minoritario del sistema politico italiano, rimandano a un grappolo di questioni che sono oggi al centro dell’evoluzione dei sistemi politici democratici, facendo del caso radicale un esempio paradigmatico di tendenze profonde che esso ha anticipato ed evidenziato.

È necessario, a questo proposito, prendere sul serio le ricorrenti affermazioni dei dirigenti radicali, secondo cui il tratto più rilevante e significativo dell’esperienza radicale e della sua “alterità” sarebbe stato costituito, più ancora che dalle lotte politiche da esso condotte, dal suo peculiare modello organizzativo di “partito nuovo”, modello esemplare di rapporti politici, spesso additato all’intera democrazia italiana ed europea addirittura quale “prefigurazione di un progetto e di un programma di società” (almeno fino a quando questo linguaggio era merce corrente, prima cioè che le rinnovate fortune dell’“anticostruttivismo” alla Hayeck avessero fatto breccia nel velato giacobinismo democratico di Pannella).

Non si tratta però tanto di prendere sul serio lo Statuto presidenzialista, federalista, e al tempo stesso giacobino (per la sua perenne modificabilità a maggioranza semplice dei Congressi nazionali), che i nuovi radicali si erano dati negli anni sessanta, più volte poi rimaneggiato, e neppure di analizzare per ora nel dettaglio le contraddizioni fra quel modello e la concreta prassi della vita interna del Pr, che si evidenziavano almeno una volta all’anno in occasione dei Congressi nazionali e delle polemiche sulla democrazia interna, sul rispetto delle regole, sull’accesso all’informazione interna da parte delle minoranze, sull’uso del finanziamento pubblico o della Radio radicale. Non si tratta per ora neppure di esaminare come, nel corso degli anni, le norme “presidenzialiste” dello Statuto fossero state applicate in modo rigido ed estensivo, mentre quelle “federaliste” fossero andate incontro a una sostanziale disapplicazione prima e ad una franca ripulsa poi, quando le dimensioni meno lillipuziane del partito ne avrebbero reso possibile una prima reale messa in pratica.

Per comprendere come tutto questo sia stato possibile, è necessario affrontare un nodo centrale della vicenda radicale: il Partito radicale è stato in questi decenni, di fatto almeno a partire dal 1974 e in modo esplicito dopo il 1980, il primo esempio in ordine di tempo, dopo quello gollista francese, di un vero e proprio partito politico “carismatico” operante all’interno di un sistema politico occidentale. Naturalmente, per comprendere il senso di questa affermazione, bisogna riferirsi non già al significato generico e giornalistico di questa definizione, bensì a quello specifico e ormai classico formulato nella sociologia di Max Weber. Come è noto, il potere carismatico è, secondo tale formulazione, quello fondato “sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa”[2] Il carisma è “una qualità straordinaria […] che viene attribuita ad una persona. Pertanto questa viene considerata come dotata di forza e proprietà soprannaturali o sovrumane, o almeno eccezionali in modo specifico, non accessibili agli altri […] e, di conseguenza, come ‘duce’ [Führer]”[3]. La definizione va ricondotta, come è altrettanto noto, al carattere di “modello idealtipico” proprio dei concetti della metodologia weberiana: concetti che “possiedono il carattere di un’utopia, conseguita mediante l’accentuazione concettuale di determinati elementi della realtà”[4], cui vanno commisurati i dati della realtà empirica: nel caso di un movimento politico carismatico che agisca nella società contemporanea, non si avrà quindi in pratica mai una rispondenza totale al modello idealtipico, ma si tratterà comunque di un compromesso fra il principio di legittimazione carismatico e quello “razionale” dominante in Occidente, per il quale il potere si basa “sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti”[5]. E va altrettanto ovviamente ricondotta alla realtà del microcosmo radicale, entro cui soltanto il carattere carismatico della leadership di Pannella veniva riconosciuto dalla maggioranza dei membri della comunità radicale. Entro questi ovvi limiti, l’appartenenza del Partito radicale alla famiglia dei movimenti carismatici sembra indiscutibile. Al tempo stesso costituisce però un’importante smentita della tesi secondo cui la garanzia per la sopravvivenza delle istituzioni liberali e democratiche alla loro gestione da parte di capi carismatici sarebbe costituita dall’intrinseca volatilità e, quindi, dalla facile revocabilità, del potere carismatico.

È interessante rilevare che il carattere carismatico del Partito radicale era stato teorizzato per la prima volta, dall’allora radicale Angelo Panebianco, solo nel 1980[6], alla vigilia di quel Congresso straordinario “di rifondazione” che avrebbe trasformato per qualche stagione il partito libertario dei diritti individuali di libertà nel partito della lotta alla fame nel mondo, da condursi in alleanza strategica con la Chiesa romana di Giovanni Paolo II. Più o meno nello stesso periodo, un’articolata riproposizione delle tesi weberiane sulla democrazia carismatica e plebiscitaria veniva avanzata da Luciano Cavalli[7], inizialmente in non smentita sintonia con le proposte craxiane di riforma costituzionale. Anche se oggi l’esigenza di riformare le istituzioni in senso tendenzialmente presidenzialistico e plebiscitario viene ormai fatta valere senza più neppure avvertire il bisogno di fornirle pezze di appoggio culturali di sorta, risalire a una delle origini teoriche di uno dei più rilevanti dibattiti politici ancora aperti in Italia può forse essere utile anche per metterne in discussione alcuni ormai poco controversi presupposti, e in questo l’esperienza storica del Partito radicale può essere illuminante (anche per chi sia troppo avvertito e smaliziato per non rischiare di confondere differenze e intrinseche discordanze fra “democrazia in grande” e “democrazia in piccolo”, fra funzionamento dei partiti e funzionamento delle istituzioni[8]).

Il fatto è che, in parte sulle orme dello stesso Weber, i riscopritori della sua teoria del carisma come strumento euristico e interpretativo di ricorrenti fenomeni sociali tendono spesso anche a farla propria come programma politico, magari sottovalutandone largamente i rischi di involuzione autoritaria, soprattutto in un paese tutt’altro che fornito di sostanziosi anticorpi nelle sue istituzioni e soprattutto nella cultura politica diffusa. Il clima culturale del resto, con la disinvolta iscrizione all’albo del pensiero liberale di quasi tutta la cultura conservatrice europea degli ultimi due secoli, ha operato largamente anche nei confronti di Weber, tanto poco sensibile in realtà a qualunque tentazione liberale, da ritenere (tra l’altro in singolare contrasto con la sua precoce critica dell’idea di “progresso”) che preoccuparsi per la sorte dei diritti di libertà fosse ormai anacronistico già ai suoi tempi: fino ad affezionarsi alla battuta, reiteratamente da lui riproposta, secondo cui le idee liberali ed i diritti umani, lungi dall’essere una conquista fragile e perennemente minacciata, erano ormai talmente acquisiti alla coscienza contemporanea (nella Germania guglielmina!) da essere divenuti “così banali come il pane nero per chi ha fin troppo da mangiare”[9].

In queste riproposizioni, e in particolare in quella di Panebianco, il carisma era visto come la sola forza capace di produrre un reale mutamento sociale: sicché nel Pr il suo eventuale superamento, “nella direzione di quella che Max Weber definiva la ‘routinizzazione’ del carisma”, e la sua sostituzione o integrazione con alcuni elementi organizzativi “burocratici”, “sarebbe [stata] poco meno che una catastrofe per i radicali”: nonostante l’“esplosiva” contraddizione, che Panebianco non si nascondeva, fra il principio organizzativo carismatico e i valori liberali e libertari professati dal Pr[10].

Non è un caso che Panebianco fosse arrivato a queste conclusioni solo nel 1980: anzi, in precedenza, assieme al gruppo che si raccoglieva attorno alla rivista Argomenti radicali, diretta da Massimo Teodori, era stato fra i protagonisti dell’unico, fallito, tentativo reale di introdurre elementi di democratizzazione “burocratica” all’interno del Pr, al Congresso nazionale di Bologna del 1977[11]. In realtà era stato lo stesso Pannella ad accettare prima e a “rivelare” poi (sia pure facendo ricorso alle consuete massicce dosi di imbellettamento continuistico) quella che era stata, nel corso degli anni, una vera trasformazione del Pr, da partito volto a inventarsi, anche con molta ingenuità, un’inedita e, nelle intenzioni, esemplare organizzazione interna libertaria, a comunità carismatica dei seguaci del leader.

Il modello organizzativo disegnato un po’ astrattamente dallo Statuto radicale e dalla sua ideologia organizzativa prevedeva che la lealtà dei membri non si fondasse su un comune patrimonio politico o ideale, e neppure su comuni interessi e valori, bensì solo su un programma concreto di iniziative politiche: salvo poi ad inserire ogni anno nelle mozioni finali dei congressi, approvate in genere a maggioranza dei tre quarti e quindi ritenute statutariamente vincolanti per tutti gli iscritti, giudizi politici ed ideologici così dettagliati da non trovare riscontro nella prassi di nessun altro partito politico italiano del periodo, imponendo quindi, almeno in teoria, un’omogeneità di valutazioni non solo strettamente politiche, ma anche ideologiche, straordinariamente elevata (ed anzi mirando, per tale via, a delegittimare le opposizioni interne sconfitte al congresso che, se non condividevano nei dettagli le mozioni “vincolanti”, venivano considerate una presenza estranea, incongrua e perfino delegittimata a riproporre le proprie tesi sconfitte nel congresso successivo, dato che l’ideologia organizzativa voleva che il partito si “ricostituisse” ogni anno esclusivamente sulla base di tali mozioni anziché sulla base di un “acquis” prodottosi attraverso anni di impegno comune dei dirigenti e dei militanti e di consenso da parte dei cittadini elettori[12]).

In ogni caso, dall’approvazione del nuovo Statuto nel 1967 e almeno fino al 1974, il Pr ostentava un’ideologia organizzativa assolutamente egualitaristica, tanto che la stessa indiscussa leadership di Pannella tendeva ad essere mascherata e occultata sia nella prassi dei congressi, sia attraverso l’elezione di segretari nazionali giovanissimi o, almeno in un caso, addirittura afasici. La diffidenza nei confronti dell’idea stessa di leadership era del resto naturale in un partito che, a dispetto delle ricostruzioni anche in questo campo artefatte degli ultimi anni, si era inizialmente trovato in buona sintonia, anche se estraneo per ragioni anagrafiche, con il movimento del ‘68[13]. Perfino nelle iniziative che lo vedevano assoluto protagonista, Pannella tendeva sempre ad associare qualche altro esponente del partito: la legge sull’obiezione di coscienza passava alla fine, nel 1972, grazie a un digiuno che non veniva presentato come il più lungo – fino ad allora - digiuno di Pannella, ma come il digiuno di Pannella e dell’obiettore Alberto Gardin. Pannella “si arrendeva” e accettava il suo ruolo di leader reale di un piccolo partito solo nella primavera del 1974, una volta fallito, con il mancato successo della raccolta delle firme sul primo “pacchetto” di richieste di referendum, il tentativo di dare una soggettività autonoma al Pr (era il periodo in cui una segreteria nazionale di otto membri tentava di stimolare la crescita organizzativa del partito sulla base del progetto degli otto nuovi referendum e della campagna in atto per la difesa del divorzio, mentre Pannella cercava di dar vita al quotidiano “Liberazione”, tentativo peraltro anch’esso conclusosi senza successo).

Il rilancio del Pr era interamente affidato al più interminabile ed “epico” dei suoi digiuni, che si caricava strada facendo di sempre nuovi e più ardui obiettivi. Pressoché nessuno di essi sarebbe stato conseguito, ma alla fine il successo di immagine sarebbe stato ciononostante enorme: fu allora che Pannella diventò un noto personaggio pubblico e televisivo, fu allora che il suo nome e il suo volto, dopo aver conquistato le prime pagine dei quotidiani e le copertine dei settimanali, divennero noti al largo pubblico. Fu allora che Pannella decise di accettare il ruolo che la sua funzione pubblica e la debolezza del suo partito sembravano assegnargli, e fu da allora che il tentativo di conferire una soggettività reale al partito venne sempre più esplicitamente respinto sia da Pannella che da quasi tutto il gruppo storico dei “nuovi radicali”. Senza la necessità di riforme statutarie formali (che pure non sarebbero mancate), il “partito di programma”, l’associazione laica di cittadini, (pensato come una vera e idealtipica “Gesellschaft” politica) si trasformava in “comunità”, in vera e propria “Gemeinschaft” tönniesiana, unita da una vera e propria fede nelle capacità e nella moralità del capo e da un senso profondo di radicamento e di appartenenza. L’organizzazione del Pr avrebbe continuato ad essere proposta a tutti gli altri partiti come un modello, presentato anzi come il solo capace di far fronte alla crisi di legittimazione che si evidenziava a partire dalla fine degli anni settanta[14], ma sarebbe stato un modello ben diverso da quello ingenuamente democratico delle origini. L’oggetto della lealtà dei membri della comunità-partito non era più costituito, se non nominalmente, dagli obiettivi indicati nelle mozioni congressuali, e neppure da un nucleo di interessi e valori, bensì dalla persona del leader. Proprio come nel modello puro, idealtipico, della leadership carismatica. Alla fine, alle elezioni non si sarebbe più presentato il Partito radicale, ma la “Lista Pannella”, risolvendo così anche il problema, che aveva assillato il gruppo dirigente radicale negli anni settanta, di non rischiare di produrre, attraverso la partecipazione a tornate elettorali locali, una leadership periferica in grado di proporsi prima o poi come un possibile ricambio, interpretato come rischio, o certezza, di “omologazione”. Con il Congresso straordinario “di rifondazione”, che si potrebbe dire carismatico-religiosa, del 1980, quello della lotta alla fame nel mondo, tale processo giungeva alle sue ultime conseguenze.

Molti hanno tentato, con maggiore o minore successo, di imitare almeno in parte questo stile politico, ma quel che va qui sottolineato è che gli stessi radicali sono stati fra i più decisi sostenitori della proposta di estendere questo modello di leadership dal piano del partito a quello delle istituzioni. Se nel 1975 Pannella si proclamava favorevole al sistema maggioritario a doppio turno alla francese[15], e nel 1979, in occasione delle prime elezioni europee a suffragio diretto, Pannella si proponeva invece come rappresentante di quelle forze politiche che, come i verdi tedeschi e francesi e i liberali britannici, erano state escluse dal Parlamento per effetto del carattere maggioritario delle leggi elettorali del proprio paese[16], da anni ormai le proposte di riforma dei pannelliani, e di molti altri assieme a loro, insistono con enfasi proprio sull’elemento della “fiducia” personale, del rapporto diretto fra elettorato ed eletto, come ricetta per la soluzione della crisi di legittimazione della rappresentanza politica: echeggiando, coscientemente o meno, le stesse soluzioni che Max Weber proponeva per la Germania del primo dopoguerra[17], pur consapevole che la sola conciliazione possibile fra carisma e democrazia è “una specie di potere carismatico che si cela sotto la forma di una legittimità derivante dalla volontà dei sudditi”[18]. Ma nel suo caso il mezzo era adeguato al fine, perché il “fine ultimo” di Weber come uomo politico non era la costruzione o il consolidamento di una società liberale, bensì l’affermazione nel mondo della potenza della nazione tedesca e della sua cultura[19].

Chi abbia conosciuto le platee adoranti dei congressi radicali può dubitare che l’assopimento comunitaristico ed entusiastico della coscienza critica individuale in nome dell’entusiasmo collettivo, che ha reso possibili, nel caso radicale, le più fantasiose metamorfosi nell’orientamento, nelle alleanze e negli stessi campi di interesse e di intervento del partito di Pannella, possa essere una direzione auspicabile per la riforma delle istituzioni.

Forse l’intenso dibattito di questi ultimi anni non ci consente più di affermare senza ulteriori distinguo, come se fosse un’ovvietà liberale, che “c’è un solo modo per costruire un ordine politico non oppressivo: quello di spersonalizzare e vincolare il più possibile il potere politico”[20]. Ma non fino al punto di dimenticare che, nella classificazione di Weber, il modello della leadership carismatica si contrapponeva non tanto al “potere burocratico”, quanto al modello di legittimazione “razionale-legale” [21]. La conciliazione fra carisma e democrazia liberale deve fare i conti con la radicale contrapposizione fra carisma e legalità, con l’insofferenza del potere carismatico per il rispetto di ogni tipo di norma generale e astratta, di ogni regola del gioco democratico, di ogni freno, garanzia, contrappeso o controllo[22]. E non vi è nessuna garanzia che il carattere effimero e caduco del carisma, argomento principe dei teorici della sua integrabilità nella democrazia[23], si manifesti prima dell’avvenuta riscrittura autocratica di qualche cruciale regola del gioco. Da un lato, la società secolarizzata e razionalizzata in cui viviamo si è dimostrata, fin da pochi anni dopo la morte di Weber nel 1920, ben più esposta di quanto egli avesse potuto prevedere alla fascinazione del dominio carismatico. E il nuovo ruolo dei media nella politica e il tramonto delle subculture tradizionali della società industriale hanno forse accentuato tale predisposizione. D’altro canto, certo, quel che è accaduto o può accadere all’interno di una piccola comunità carismatica settoriale, come è un piccolo partito politico, non sarà suscettibile di riprodursi oggi altrettanto facilmente al livello delle istituzioni di uno Stato. Ma creare i presupposti perché un demagogo carismatico ci possa prima o poi provare non è quel che suggerirebbe una sana diffidenza liberale nei confronti del potere politico e dei suoi possibili e sempre probabili abusi. Oggi in Italia, i liberali (non solo quelli di sinistra) dovrebbero preoccuparsi per prima cosa di non sottovalutare i limiti culturali dei politici che si vogliono liberali.

 

Da Critica liberale, n. 54, ottobre 1999

La prima parte di questa analisi dell’evoluzione del Partito radicale era comparsa nel n. 51, maggio 1999, di Critica liberale.

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[1] Il linguaggio curiale e le sperticate apologie del Papa in cui Pannella si produceva per qualche mese erano forse la spia di una sua effettiva crisi religiosa, ma resta incredibile che il partito anticlericale e libertario di qualche anno prima si sia potuto in maggioranza accodare a tale metamorfosi di temi e di linguaggio: quando il Papa inseriva nel suo discorso pasquale un fugacissimo e avaro accenno al problema della fame, argomento di routine per un pontefice, Pannella si abbandonava a considerazioni come questa: “Una splendida Pasqua […] Come non associarsi alle parole del Papa: ‘Possa il Cristo risorto ispirare a tutti […] sentimenti di solidarietà e di amore generoso verso tutti i nostri fratelli che si trovano nel bisogno’?”: cit. in “Wojtyla ci ha ascoltato, non sarà l’anno di Erode”, La Repubblica 17/4/79. Prometteva che “noi laici e voi cattolici staremo uniti per la vita” e quanto all’aborto rilevava ecumenicamente che “siamo tutti contro l’aborto di Stato e l’aborto clandestino”: cit. in “Comincia il dialogo fra Pannella e il Vaticano”, La Repubblica 14/4/79. Sintetizzava così il suo giudizio su Giovanni Paolo: “Dio ce l’ha dato, guai a chi ce lo tocca”, cit. in F. De Sanctis “La marcia dei laici in S. Pietro”, Corriere della sera 17/4/79. Il Congresso radicale diventava “un’ecclesia” che decide “in comunione”: “Il Mein Kampf di Marco Pannella”, Quaderni radicali n.5-6, gennaio-giugno 1979. La Chiesa cattolica diventava, nel linguaggio del leader radicale “la nostra chiesa”: così in “Non sia l’anno di Erode”, Notizie radicali 28/2/79. Neppure un mese prima, parlando di aborto, Pannella denunciava ancora i “buoni rapporti con gli assassini” degli ambienti ecclesiastici contrari alla depenalizzazione dell’aborto: “La nostra lotta per la vita”, Notizie radicali 1/2/79. Ma ora, per una lunga stagione, il Pr sarà definito, fra le molte altre cose, e senza che pressoché nessuno trovi alcunché da obiettare, “il partito dell’integrità cristiana”: Pannella, “L’editoriale”, Notizie radicali 20/1/83.

[2] Max Weber “Economia e società”, a cura di Pietro Rossi, 5 voll., Milano, Comunità, 1980 (ed. or. 1922, ed. critica. or. 1956-72), vol. I, p.210.

[3] Ivi, p.238.

[4] Max Weber “L’‘oggettività’ conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale” (ed. or. 1904), in Id. “Il metodo delle scienze storico-sociali”, a cura di Pietro Rossi, Torino, Einaudi 1981 (1958), p.107.

[5] “Economia e società”, cit., vol. I pp.210ss., 260ss., vol. IV p.57, 101.

[6] Angelo Panebianco “Carisma e Partito radicale: alcune riflessioni”, Argomenti radicali, n.14, novembre 1979 – gennaio 1980.

[7] Luciano Cavalli, “Il capo carismatico. Per una sociologia weberiana della leadership”, Bologna, Il Mulino, 1981; Id. “Carisma e tirannide nel secolo XX. Il caso Hitler”, Bologna, Il Mulino, 1982; Id. “Il Presidente americano. Ruolo e selezione del leader Usa nell’era degli imperi mondiali”, Bologna, Il Mulino, 1987; Id. e altri “Leadership e democrazia”, Padova, Cedam 1987.

[8] Su cui credo siano da considerare conclusive le pur lontane considerazioni di Juan Linz, “Michels e il suo contributo alla sociologia politica”, introduzione alla classica “La sociologia del partito politico nella democrazia moderna” di Roberto Michels, Bologna, Il Mulino, 1966 (ed. or. 1925). Ciò non toglie che un leader giunto al potere attraverso il governo di un partito carismatico sarà certo tentato di valersene per riprodurre, nei limiti del possibile, il medesimo stile di leadership anche nel paese: e, come si è visto recentemente, la società contemporanea offre significativi strumenti per rendere concepibile un tale tentativo.

[9] Max Weber “La situazione della democrazia borghese in Russia” (ed. or. 1905), in Id. “Sulla Russia 1905/6 – 1917”, Bologna, Il Mulino, 1981, p.69; Id. “La transizione allo pseudocostituzionalismo in Russia” (ed. or. 1906), ivi, p.136. Al di là della battuta, è naturalmente possibile, e anche facile, ricostruire l’estraneità radicale di Weber a ogni possibile tentativo di genealogia liberale, a partire dai suoi più arrovellati testi teorici e nel confronto con quelli di intervento politico contingente.

[10] Il saggio conteneva anche alcune considerazioni, francamente non condivisibili, su una ipotizzata correlazione fra modello della leadership carismatica e “etica della convinzione”, che diedero luogo a una disputa con le tesi di Cavalli (Panebianco “Tendenze carismatiche nelle società contemporanee”, Il Mulino n.228, luglio-agosto 1983). Riprendendo l’argomento, ma senza citare espressamente il caso del Pr, in un suo volume dedicato ai modelli organizzativi di partito, Panebianco sottolineava che tale “tensione ineliminabile” dipende dal fatto che i partiti carismatici di orientamento democratico, a differenza di quelli autoritari, “non possono incorporare al proprio interno principi organizzativi formali che vincolino all’obbedienza al capo”: “Modelli di partito. Organizzazione e potere nei partiti politici” Bologna, Il Mulino, 1982, n.54. p.294s.

[11] “Attuare integralmente lo Statuto per realizzare il ‘partito nuovo’”, Argomenti radicali n.3-4, 1977.

[12]A chi avanzava timide obiezioni sulle sue affermazioni più apodittiche nel corso di un Consiglio federale, Pannella poteva così replicare che “il partito è la sede di chi ha già risposto a queste domande”: Radio radicale, 27/11/83.

[13] La compromissione più diretta e impegnativa era stata il volume di due radicali, Carlo Oliva e Aloisio Rendi, “Il movimento studentesco e le sue lotte”, Milano, Feltrinelli, 1969, ricostruzione simpatetica e molto schierata, secondo cui il fulcro del movimento sarebbe stato costituito addirittura da “una rivalutazione dell’individuo, della sua libertà e dignità”, pur nella consapevolezza che tale interpretazione non coincideva con “quella che il movimento studentesco dà di se stesso”, p.7s.; cfr. anche Angiolo Bandinelli “Come inventare la scuola ‘alternativa’”, L’Astrolabio 20/12/70; Gianfranco Spadaccia “L’alibi delle bombe”, L’Astrolabio 4/5/69. “Vicini al movimento del ‘68” giudicava nella sostanza i radicali Massimo Teodori, nel suo “I nuovi radicali. Storia e sociologia di un movimento politico”, scritto assieme a Panebianco e a Pietro Ignazi, Milano, Mondadori, 1977, pp.101s. Almeno fino al ’77, Pannella ostentava un atteggiamento di solidarietà e di vicinanza esistenziale e valoriale con la subcultura giovanile di quegli anni, e con i precursori, i protagonisti e i reduci della “rivolta giovanile”. Solo al Congresso straordinario del ’77 improvvisamente Pannella abbandonava il suo esibito giovanilismo esistenziale, esternato fino ad allora persino nell’abbigliamento, e, nello sconcerto di molti militanti, cominciava a sottolineare con personale partecipazione i problemi della condizione degli anziani.

[14] Teodori scriveva ora che “l’unica direzione in grado di assicurare una politica efficace è quella incarnata da personaggi contrapposti alla burocrazia e in grado di stabilire un diverso rapporto con l’opinione pubblica” (“La crisi dei radicali”, La Repubblica 7/3/82).

[15] “Perché siamo popolari”, intervista a Panorama, 23/10/75.

[16] Cit. in Sandro Parone “Monelli a Strasburgo”, Panorama 9/7/79; così anche Massimo Teodori “L’eurotruffa”, Notizie radicali 1/2/79 e “Le due strategie della sinistra”, relazione del segretario Jean Fabre al Congresso nazionale straordinario dell’aprile ’79, Notizie radicali 15/4/79, esplicitamente contrario anche a soglie di sbarramento.

[17] “La direzione dei partiti da parte di capi plebiscitari determina la rinuncia dei seguaci alla propria anima, o, per dir così, la loro proletarizzazione spirituale”: “è appunto questo il prezzo con cui si paga la direzione mediante un capo. Ma non vi è che questa scelta: o democrazia sottomessa a un capo [Führerdemokratie] […] o democrazia senza capo, vale a dire dominio dei ‘politici di professione’ senza vocazione, senza le qualità intime carismatiche che appunto creano un capo”. Max Weber, “La politica come professione” (ed. or. 1916), in Id. “Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi”, a cura di Antonio Giolitti, Torino, Einaudi, 1980 (1948), pp.98, 99. Nel partito carismatico (per Weber il carattere carismatico delle istituzioni presupponeva quello analogo dei partiti) si ha la “soddisfazione di lavorare per un uomo in forza di una dedizione e di una fede personale, e non per un programma astratto di un partito formato da mediocrità” (ivi, p.84): una soddisfazione che a Weber sembrava di immediata evidenza.

[18] Economia e società, vol. I, p.265; Max Weber “Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti” (ed. or. 1918), in Id. “Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e altri scritti politici”, a cura di Luigi Marino, Torino, Einaudi, p.166; L. Cavalli “Il capo…” cit., p.128.

[19] Max Weber “Alle soglie del terzo anno di guerra” (ed. or. 1916), in Id. “Parlamento e governo…”, cit., p.280.

[20] Giovanni Sartori, “Democrazia e definizioni”, Bologna, Il Mulino, 1969 (1957), p.208, corsivo mio.

[21] Max Weber, “Economia e società”, cit., vol. I, p.210.

[22] Nel tipo puro del potere carismatico, “non si ha alcun regolamento né alcun complesso di principi giuridici né alcuna ricerca razionale del diritto orientata in base ad essi […] Sono invece decisive formalmente le creazioni giuridiche attuali di volta in volta […] Il potere carismatico è specificamente irrazionale nel senso che manca assolutamente di regole” (Ivi, vol. I, p.240, corsivo nel testo). “Il carisma conosce soltanto determinazioni interne e limiti tratti da se stesso” (Ivi, vol. IV, p.219). Si pensi ai “discorsi costituenti” del generale De Gaulle, fonti di diritto costituzionale, secondo l’opinione espressa, senza intenzioni umoristiche, da qualche autore francese dell’epoca (cit. in M Volpi “La democrazia autoritaria”, Bologna, Il Mulino, 1979, p.84); oppure alle “interpretazioni” di Pannella dello Statuto del Pr, cioè dell’unico testo normativo che egli abbia avuto il potere di gestire.

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