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Identità e relativismo

di Felice Mill Colorni

Alle ossessive discussioni attorno ai problemi di “identità” di cui sono intessute le nostre cronache politico-culturali sembra fare sempre più da sfondo uno spappolamento totale delle identità etico-politiche individuali e collettive. Anzi, è fin troppo facile rilevare come l’ossessione sia la diretta conseguenza dello spappolamento. Eppure poteva sembrare che la sola visione del mondo davvero crollata di schianto nel corso degli ultimi decenni fosse l’“illusione” comunista. Qualcuno di noi aveva anzi sperato, dopo l’89, che, finalmente liberata dall’ipoteca del comunismo e del “marxismo volgare” e dal “fattore K”, la sinistra occidentale, fattasi liberale, o per lo meno socialdemocratica senza più troppi grilli balzani per la testa, avrebbe potuto più liberamente ed efficacemente contrastare una destra anch’essa “condannata” a farsi liberale o almeno civilmente conservatrice e francamente liberista. E invece no. Se l’Italia si è rivelata la più vulnerabile all’offensiva degli opposti populismi e preda da ormai un decennio di una destra di cui avremmo creduto inverosimile il successo in un paese sviluppato, tutto l’Occidente, una volta perso il nemico principale dell’ultimo mezzo secolo, sembra incapace di articolare e trasmettere ai suoi cittadini il senso della propria “individualità storica”.

La politica, ormai largamente divorziata dalle culture politiche, sembra solo capace di amministrare (o disamministrare) e di cavalcare gli umori prevalenti. Che sono gli umori impauriti di un Occidente che si sente insidiato dalle sfide della globalizzazione e assediato da un’umanità aliena; oppure schiacciato dai propri sensi di colpa nei confronti del Sud del mondo. Qualcuno vede solo la minaccia della perdita di identità ancestrali immaginarie, immutabili, mitizzate, reinventate, sfidate da un’insostenibile concorrenza economica e da culture indecifrabili ma avvertite come più vitali della propria e incomprensibilmente intrecciate con il terrorismo fondamentalista; altri vorrebbero all’opposto cogliere l’occasione per spogliarsi di un’identità occidentale considerata essenzialmente predatoria, egoistica, ormai avulsa dalle sue genuine radici, tutta risolta nel trionfo autistico di una techne ormai irrimediabilmente emancipatasi dai suoi creatori, vera e cieca dominatrice dell’umanità occidentale e frutto conseguente della sua superbia nichilista e della sua razionalità strumentale e formale: la “gabbia d’acciaio” si sarebbe ormai, come voleva la profezia weberiana, rinchiusa irreversibilmente sui suoi artefici; e non vi sarebbe altra via per liberarsene che rinunciare alla modernità (o alla supermodernità) occidentale, o almeno favorirne una contaminazione con le culture del Sud del mondo, culture magari meno liberali e democratiche, segnate da tradizioni comunitaristiche e autoritarie, ma proprio per questo più capaci di esprimere valori umani autentici che l’Occidente avrebbe ormai dimenticato.

Il senso di colpa di così larga parte dell’Occidente democratico non ha solo comprensibili e in parte anche condivisibili ragioni storiche ed economiche, non è solo nutrito dalla consapevolezza delle disuguaglianze, della sproporzione nell’uso delle risorse naturali, dalla cattiva coscienza degli ex colonizzatori. Non siamo certo disposti a dare credito ad un presunto carattere inalterabile nei secoli delle identità storiche e culturali, e quindi ad attribuire all’Occidente moderno una millenaria continuità identitaria, insensibile alla storia e a fenomeni come la nascita di un’antropologia individualistica nel basso medioevo e la lotta per l’emancipazione dell’individuo occidentale dalle autorità politiche e religiose, che ha portato alla nascita della civiltà liberale a partire dal Seicento inglese e al suo perennemente contrastato e precario sviluppo. Questo sviluppo è fatto anche di svolte e di relative soluzioni di continuità, non solo di maturazioni sostanzialmente lineari o, come si sarebbe detto decenni fa, di “inveramenti”. Ma è vero che, fra i materiali culturali che hanno concorso alla costruzione dell’Occidente moderno, rendendone anche possibili (possibili, non necessari; e certo assieme anche a materiali di altra provenienza e di diverso segno) gli sviluppi individualistici e liberali, uno dei più tipici e primordiali è la capacità di autocriticarsi, di vedersi dall’esterno, di saper considerare l’esistenza, fin dai tempi dei tragici e degli storici greci, di un punto di vista altrui (qualche volta, perfino, di saperlo anche rispettare).

Ma se il relativismo, il politeismo congenito dei valori, il conflitto non necessariamente distruttivo, la costante propensione ermeneutica, il fallibilismo, e quindi il dubbio e il sospetto (costantemente avversati, è ovvio, da dogmatismi e autoritarismi e organicismi di ogni genere che però, a differenza dei primi, non sono nostre caratteristiche peculiari) sono intrinsecamente connessi al sorgere della razionalità formale e hanno contribuito in modo determinante alla nascita della civiltà liberale, cioè dell’Occidente moderno, inevitabilmente il dubbio e il sospetto hanno aggredito anche il valore stesso del dubbio e del sospetto, la propensione ermeneutica ha relativizzato anche il proprio stesso statuto. È da più di un secolo che la nostra cultura fa i conti con la propria crisi, con quella che è diventata, non solo in tedesco, la Crisi per antonomasia.

Giungere alla conclusione che una fondazione oggettiva dei valori non è più possibile, che anche tutti gli sforzi per restaurarla in qualche modo, convenzionalmente sulla base della centralità del dialogo, o della riflessione sulla comunicazione intersoggettiva, sono inevitabilmente indeboliti (quanto meno nella loro efficacia sociale) dal loro stesso carattere di sofisticate esercitazioni filosofiche, non dovrebbe però in sé significare necessariamente apatia o indifferenza fra diverse opzioni di valore, né rinuncia a qualunque riflessione argomentata in questo campo. Optare, scegliere, diventa anzi un più significativo esercizio di responsabilità se è espressione di una presa di posizione (relativamente) libera, non obbligata, di fronte alla vita e alla storia. È anzi operazione necessaria e preliminare per conferire un qualunque senso alla propria vita e alla storia. E che una domanda impellente e insoddisfatta di senso sia ben presente nelle nostre società sembra essere testimoniato sia dall’ossessiva ricerca di “identità” individuali, tribali e collettive cui illudersi di poter aderire passivamente e “naturalmente”, sia dalle molteplici risposte che si esprimono da qualche decennio nella revanche de Dieu che sembra attraversare l’Occidente e non solo l’Occidente.

La democratizzazione e la civiltà di massa, la crescente complessità che rende sempre più necessario, anche nella formazione delle élites, un grado di specializzazione che spesso sfocia, come aveva ammonito Ortega, in “barbarie dello specialismo”, tendono però ad ostacolare la formazione di personalità capaci di compiere tali scelte, rendono ardua la maturazione di spiriti critici capaci di conferire coerenza culturale ed esistenziale alle proprie scelte e tendono soprattutto a rendere “liquide” e perennemente revocabili tutte le scelte. Se la fondazione filosofica oggettiva di valori (anche) etico-politici non è più possibile, non meno agevole sembra una loro fondazione sociale e relazionale come base di un covenant capace di esprimere la “fede comune” (per usare un’espressione di Dewey) della larga maggioranza dei cittadini di una democrazia liberale (a garanzia anche della libertà di dissenso di chi contesta il valore e la desiderabilità del covenant stesso). Tramontate le tradizionali agenzie di organizzazione del consenso, una società come la nostra, da sempre poco propensa all’associazionismo civile e semmai portata ad attendere che le vengano fornite strutture e indicazioni da “autorità” politiche o religiose, sembra ancor meno capace di altre di produrne autonomamente di nuove. Barbarie dello specialismo e democratizzazione (con la connessa centralità attribuita al godimento di “tanti piccoli piaceri volgari” assicurato da benevole tirannidi democratico-paternalistiche, come tornerebbe a denunciare un Tocqueville contemporaneo) frustrano la capacità di scuola e università di trasmettere valori etico-politici e intuizioni del mondo secondo gli antichi schemi della trasmissione dei saperi e dei valori attraverso le generazioni: del resto la restaurazione degli antichi schemi rischierebbe, nella mutata situazione, di funzionare al contrario, producendo maestri ciarlatani e discepoli ancor più smarriti.

È in questo spazio che si muovono molti degli sforzi un po’ affannosi di trovare risposte a due delle questioni cruciali del dibattito politico e culturale italiano di questi anni: quella dell’identità e individualità storica degli italiani e quella del rapporto con le persone che vivono fra noi ma che hanno le loro radici in altre culture e in altri – e all’apparenza ancora solidi – sistemi di valori, a cominciare dall’islam. Ma quale classe dirigente dovrebbe, nell’Italia di questi anni, trasmettere la consapevolezza dell’individualità storico-politica del paese e dell’Europa alle nuove generazioni e ai nuovi cittadini?

Qui il dibattito su quello che è stato infelicemente definito il “revisionismo” storico è rivelatore. La politica ha da tempo divorziato dalle culture politiche. I partiti (o i loro succedanei) sono ormai davvero, quale più quale meno, catch-all parties. La lotta elettorale è sempre più questione di marketing. Gli uomini politici sono ormai, davvero, imprenditori a pieno tempo del consenso; raramente possono permettersi, se non al prezzo di trascurare il proprio lavoro e i propri stessi doveri professionali, di trovare il tempo per fare anche, come a qualcuno di loro un tempo era possibile, gli “intellettuali”. La divisione del lavoro fra uomini politici e think tanks (e operatori del marketing) è un processo probabilmente ineluttabile. Eppure, soprattutto in Italia, molti leader politici non rinunciano, anche quando le loro conoscenze storico-sociali rasentano il semianalfabetismo, ad atteggiarsi a maestri di pensiero, a pretendere di incarnare, come si sarebbe detto un tempo, la coscienza della nazione. Gli esiti sono sconcertanti, spesso francamente grotteschi.

La destra italiana si è trovata nella necessità di conferire una qualche plausibilità intellettuale a un’alleanza assemblata con le cianfrusaglie che il mercato politico metteva a disposizione al momento della sua costituzione dieci anni fa, cioè, all’incirca con il 15% del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica (mentre l’altro polo si è dovuto acconciare ad accogliere il restante 85%): si è quindi avventurata nella costruzione di una sorta di Frankestein intellettuale in cui far convivere una serie di componenti, quasi tutte aliene alla cultura politica della democrazia liberale, che in ogni altro paese dell’Occidente sviluppato sono patrimonio esclusivo di frange lunatiche ed emarginate: il razzismo e l’omofobia dei leghisti, l’imbarazzante eredità storica del fascismo (compresa quella del nazifascismo repubblichino, parte integrante e costitutiva del vecchio Msi), il clericalismo estremo della destra cattolica (senza riscontro in nessun paese, pur di tradizione cattolica, nell’Europa occidentale), gli umori ribellistici di un familismo amorale ed eslege che in Italia non è affatto caratteristica esclusiva delle regioni segnate dalla criminalità mafiosa. Non che questi ingredienti siano unici e peculiari dell’elettorato della destra italiana (così come l’affezione per alcuni miti che il comunismo aveva saputo diffondere anche nelle sinistre socialiste non è del tutto assente fra gli elettori di sinistra anche di altri paesi dell’Europa occidentale): ma solo in Italia vi è una classe politica di governo che, anziché fare da filtro, anziché tentare di dare uno sbocco civile e di incanalare entro gli argini della democrazia liberale umori e attitudini del genere, se ne è fatta essa stessa portavoce e propagandista, mettendo in campo tutto il suo smisurato peso mediatico ed economico per convincere anche buona parte dell’elettorato moderato a seguirla su questa strada. E molti moderati, non solo fra i più culturalmente svantaggiati, si sono allineati, come del resto è accaduto tante volte nella storia del XX secolo anche di fronte ad avventure ben più tragiche e abiette di quel che non sia questa nostra mediocre farsa nazionale, senza alcun sospetto di avere così abbandonato il proprio abito mentale e psicologico di moderati e continuando anzi a coltivare tale autorappresentazione.

E poiché, almeno dai tempi di Leon Battista Alberti, i chierici italiani non sono mai stati sordi alla chiamata e alle lusinghe del potente di turno, per quanto ciarlatano (magari anche nella lodevole illusione di civilizzarlo un po’), non è stato nemmeno difficile trovare intellettuali disposti a sperperare il proprio prestigio in cambio di prebende e onori politici e a prestare avalli ai nuovi padroni e alle loro cianfrusaglie. Semmai quel che stupisce positivamente è il numero relativamente limitato di volonterosi chierici accorsi questa volta in difesa del vincitore. Il risultato è comunque un’opera di diseducazione civica di dimensioni gigantesche, destinata a gravare sul futuro dell’Italia ben più a lungo della durata dell’avventura berlusconiana.

Di fronte a un Presidente del Consiglio convinto che Mussolini e il fascismo non abbiano mai ucciso nessuno e che spedissero i dissidenti in villeggiatura, di fronte a centinaia di amministrazioni locali che dedicano vie e piazze ai gerarchi locali del passato regime, di fronte a una “politica della storia” ampiamente mediatizzata per la quale ragioni e torti del nazifascismo e della democrazia liberale sono solo questione di punti di vista tutti ugualmente accettabili e opinabili, e anzi impegnata a rivalutare le ragioni del clericalismo oscurantista contro quelle del Risorgimento e quelle delle “insorgenze”, intellettuali e armate, contro ogni manifestazione di idee illuministiche nella stessa Italia di fine Settecento e inizio Ottocento (pogrom e massacri di ebrei tacitamente inclusi e condonati), di quale sistema di valori etico-politici potremmo ormai farci forti per integrare nella democrazia liberale i nostri nuovi concittadini?

Prima ancora che di integrare costoro, dovremmo preoccuparci di ricostruire qualche brandello di consapevolezza del significato della democrazia liberale fra gli stessi autoctoni. Certo, la convinzione che contare le teste altrui è più desiderabile che romperle è radicata, la democrazia meramente elettorale non è in discussione. Ma basta parlare con l’“uomo della strada”, basta ascoltare le interviste alla “gente” o ai “giovani” per cogliere le dimensioni della regressione (e questo non è il giudizio di chi a suo tempo avesse nutrito eccessive illusioni sul radicamento della cultura democratica nel tessuto sociale dell’Italia; ma almeno c’era un barlume di classe dirigente responsabile). L’educazione civica dovrebbe essere considerata una priorità assoluta, ma come pretendere che la scuola educhi alla democrazia, se la stessa concezione di democrazia è così appannata nelle menti di chi governa e in quelle di una metà del paese?

Altro che “certezze républicaines”: qui siamo prossimi alla bancarotta civica. Magari non deraglieremo, perché esistono pur sempre vincoli internazionali, anche non scritti, che fanno da argine di ultima istanza. Sullo sfondo di questo marasma civile, è però comprensibile che, alla prova del nuovo pluralismo culturale di cui sono punta emergente gli immigrati dai paesi di tradizione musulmana, le ragioni dell’integrazione nei valori della democrazia liberale cedano il passo alle “ragioni del cuore”, magari mediate dall’etica cattolica e dalle retoriche dell’accoglienza, a prescindere da ogni altra considerazione. Le ragioni del cuore, e il diffuso disagio per ogni affermazione troppo arrogante del valore universale delle libertà individualistiche occidentali, suggeriscono soluzioni miranti a rendere morbidi i meccanismi di integrazione degli immigrati – essenzialmente degli immigrati dai paesi musulmani ­– e suggeriscono comunque un ampio ricorso a politiche di “riduzione del danno” che evitino un troppo rigido confronto fra principi occidentali, individualistici e liberali e principi e pratiche delle culture di provenienza degli immigrati.

Spesso le soluzioni proposte non sembrano però coerenti con gli obiettivi perseguiti. Porsi il problema delle conseguenze pratiche delle scelte pubbliche, agire cioè sulla base dell’etica della responsabilità piuttosto che sulla base dell’etica della convinzione/intenzione, significa porsi il problema della prevedibilità delle conseguenze (e non solo delle dirette conseguenze a breve termine). Problema non da poco, se si considera che quello dell’eterogenesi dei fini e, più in generale, delle conseguenze inintenzionali dell’azione sociale è stato il terreno su cui si è consumata la disfatta della sinistra nel XX secolo. Proporsi di agire sulla base delle (prevedibili) conseguenze pratiche è un criterio legittimo, che però rende ancor più cruciale la scelta fra le conseguenze possibili e prevedibili che vengono prese in considerazione e quelle che invece si decide di scartare o di sottovalutare.

In qualche caso la stessa situazione di fatto è scarsamente decifrabile: il velo delle studentesse islamiche è talvolta libera scelta consapevole, più spesso tacita ma brutale imposizione familiare e comunitaristica, in altri casi espressione di rivolta adolescenziale contro la propria famiglia ritenuta eccessivamente integrata. Nel dubbio propenderemmo per la rinuncia a imporre rigidi divieti, senza che per questo la scuola possa però manifestare neutralità nei confronti di un simbolo non tanto religioso, quanto di denegazione della pari dignità sociale fra uomini e donne. Viceversa ci sembra giustificato il divieto del velo per le insegnanti, dato che la scuola pubblica non può includere nella propria proposta educativa un tale messaggio di discriminazione.

Né, d’altra parte, ha sempre senso contrapporre l’etica della responsabilità all’atteggiamento di chi si preoccupa maggiormente della coerenza delle scelte pratiche con i “magnifici principi”, dato che molto spesso i principi confliggono fra loro, e si tratta di operare “ragionevoli” (per usare il linguaggio di molte Corti costituzionali) quanto sempre opinabili bilanciamenti: anche fra principi liberali tutti fondamentali, quali la libertà di espressione, la libertà di coscienza, il rispetto per la pari dignità sociale degli individui, ecc.

Per di più il criterio della riduzione del danno (che presuppone pur sempre che sia mantenuto il nostro punto di vista valutativo, sia pure facendolo pesare meno rudemente di fronte agli altri) subisce qui un inavvertito sviamento rispetto ad altre situazioni in cui è solitamente invocato. Si è parlato spesso negli scorsi anni di riduzione del danno in relazione per esempio alle politiche sulle droghe. Ma, in tal caso, il danno da ridurre, attraverso politiche non repressive dei pubblici poteri, è un danno che l’individuo procura a se stesso, danno che le politiche proibizionistiche si sono dimostrate capaci solo di aggravare, e che è invece possibile alleviare (alleviando così anche i costi sociali complessivi) con interventi sanitari ed informativi intelligenti e rispettosi della libertà individuale.

Nei casi in cui il principio della riduzione del danno viene invocato rispetto alle politiche di integrazione degli immigrati musulmani, il danno che si vorrebbe (limitarsi a) ridurre è invece un danno che le famiglie e le comunità di appartenenza arrecano intenzionalmente (naturalmente perché non lo considerano un danno) ad alcuni dei propri membri: per di più a carico di individui che, essendo minori, non sono liberi di scegliere il proprio destino perché giuridicamente incapaci di agire e perché economicamente dipendenti da tali famiglie. Limitarsi a perseguire una riduzione del danno significa, in questo caso, legittimare, sia pure parzialmente, l’altrui comportamento lesivo, significa astenersi dal difendere pienamente la libertà di espressione e di apprendimento e la stessa integrità fisica dei minori. Significa, soprattutto, sostenere o comunque non ostacolare le famiglie fondamentaliste nel loro disegno educativo antioccidentalista e aprire la via alla mancata piena integrazione nelle regole e nei valori della democrazia liberale di un numero imprevedibile di nostri futuri nuovi concittadini. Concesse le “classi islamiche” alle famiglie della moschea fondamentalista di Milano, sarebbe arduo negarle anche a molte altre che oggi, magari, accettano obtorto collo di inviare i propri figli alle scuole pubbliche “comuni”, ma che, una volta aperta la via della scuola comunitaristica, potrebbero pretendere di imporla anche ai propri figli: sviluppo tanto più probabile quanto più la pressione comunitaristica è destinata a rafforzarsi – anche grazie a tali politiche. Si obietta che, in caso contrario, l’unica istruzione che quei minori riceverebbero sarebbe quella delle scuole coraniche. Ebbene, qui si tratta semplicemente di far valere l’obbligo scolastico, e di estenderlo, come in tutti i paesi sviluppati, fino al compimento della maggiore età. Compito naturalmente difficile per un governo che ha concesso alle scuole confessionali cattoliche giurisdizione domestica sugli esami di maturità e per un’intera classe politica che ritiene lecito e positivo che le buone famiglie cattoliche integraliste impongano ai propri figli un’educazione confessionale, cioè non libera. Ma ci sembra che il dovere di una sinistra liberale sia quello di indicare un’altra strada, fondata sulla limitazione liberale dei poteri, anche dei poteri delle famiglie, non quello di avallare il potere di vita e di morte culturale delle famiglie e delle comunità – minoritarie o presuntamente maggioritarie – su individui privati di ogni difesa e garanzia pubblica.

Nel caso delle “finte mutilazioni” rituali da effettuare con una puntura di spillo e con utilizzo di creme anestetizzanti, come metodo per prevenire l’infibulazione (ammesso che convincere della sua validità sostitutiva le famiglie intenzionate a praticarla sia più semplice che convincerle dell’iniquità o magari dell’infondatezza coranica della pratica stessa), l’intervento dei pubblici poteri sembra inutile, tanto da apparire quasi un pretesto per coinvolgerli in un atteggiamento di relativo appeasement nei confronti degli aspetti più intollerabili delle “culture altre”. I diabetici, e perfino i bambini diabetici, vengono da anni educati all’autogestione delle punture: non si vede perché gli attivisti delle associazioni impegnate in queste campagne tengano tanto a coinvolgere senza necessità in queste discutibili pratiche i servizi sanitari pubblici, anziché limitarsi a richiedere eventualmente garanzie di non perseguibilità. O meglio, lo si comprende, ma a noi non sembra affatto accettabile.

Gli immigrati, quali che ne siano le convinzioni religiose, devono certo potersi sentire a proprio agio nelle nostre società, e devono innanzitutto essere protetti da quel razzismo diffuso, da quei piccoli atti di razzismo quotidiano, che costituiscono una delle ragioni non secondarie del ripiegamento comunitaristico. E devono poter diventare, se lo desiderano, cittadini a pieno titolo. Ma chi vuole qui vivere e lavorare non può pretendere di conculcare o limitare i diritti e le libertà che la democrazia liberale deve assicurare interamente anche ai famigliari, ai connazionali, ai correligionari dei nostri nuovi concittadini.

 

Da Critica liberale, n. 103-104, maggio - giugno 2004.


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