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Scienza, politica, ogm, nucleare, propensione al rischio: domande

di Felice Mill Colorni

Con una decisione del tutto inusuale, la Commissione europea ha appena scelto di proporre che siano gli Stati membri ad adottare autonomamente politiche nazionali in merito alla coltivazione degli ogm, spogliando così l’Ue di una competenza attribuita dai trattati agli organismi comunitari. Si tratta di un tentativo di uscire dall’impasse, dopo che da dodici anni non si riusciva a pervenire a un accordo, dati i forti contrasti fra i governi.

Vorremmo cogliere lo spunto da questa notizia sia per chiedere lumi sulla questione specifica degli ogm a chi fra i nostri amici e collaboratori è ferrato nella materia, sia per aprire un dibattito sulla più ampia problematica dei rapporti fra decisioni politiche e competenze scientifiche.

Nel caso specifico del dibattito pubblico sugli ogm, magari non avremo letto tutto quel che già è stato scritto dai giornali sull’argomento, ma da quel che ne abbiamo sentito ci è sembrato che ad essere mal posti fossero, come capita non di rado, proprio i dilemmi accesamente dibattuti.

Si è discusso accanitamente su un tema, quello della possibile nocività degli ogm per l’alimentazione umana o animale, che, almeno alle orecchie di profani assoluti come noi, è suonato perfino ridicolo. Sia perché non risulta che le caratteristiche genetiche degli alimenti di cui ci nutriamo siano suscettibili di interferire con il patrimonio genetico nostro: altrimenti, onnivori come in genere siamo, avremmo ormai da millenni acquisito i tratti di migliaia di altre specie animali o vegetali. Sia, più seriamente, perché ci è stato spiegato, senza, ci pare, che l’argomento sia mai stato confutato, che molti degli alimenti da noi quotidianamente consumati, a cominciare dalla semola di grano duro dei nostri spaghetti, sono il risultato di modificazioni genetiche ottenute addirittura quasi alla cieca attraverso l’irradiazione delle sementi negli anni Settanta, in un’epoca in cui l’ingegneria genetica era di là da venire.

L’altro tema su cui ci si è accapigliati è stato quello della possibile contaminazione di altre coltivazioni: tema meno futile del primo, ma, ci è sembrato, non decisivo, viste anche le dimensioni quantitative delle contaminazioni denunciate – ma potremmo anche aver capito male noi.

Non ci sembra invece di avere sentito discussioni altrettanto vivaci su un rischio che a noi profani potrebbe ragionevolmente sembrare più rilevante. Se gli ogm risultano indigesti ai parassiti e non necessitano quindi dei trattamenti d’uso nella normale agricoltura industriale, non c’è un rischio molto reale che quegli stessi parassiti si concentrino sulle coltivazioni non ogm delle stesse piante, provocandone la scomparsa o costringendo chi volesse continuare a coltivarle ad utilizzare dosi di pesticidi molto più massicce delle attuali?

Seconda domanda: nel caso la coltivazione degli ogm fosse estesa su larga scala, non vi sarebbe l’alta probabilità di una selezione delle specie dei parassiti, tale da elevarne enormemente la pericolosità, ai danni non solo delle altre coltivazioni non ogm delle stesse specie, ma anche della vegetazione selvatica? Non vi sarebbe in conseguenza un alto rischio di riduzione della biodiversità? In quanto tempo è prevedibile che sviluppi del genere potrebbero verificarsi ed essere accertati? E dato che, una volta innescato un tale processo sarebbe verosimilmente arduo se non impossibile tornare indietro, in base a quali parametri si ritiene che correre un rischio del genere sia assennato, almeno nel mondo sviluppato che non corre da tempo il rischio di carestie?

(Quest’ultimo inciso non è irrilevante, dato che in ampie parti del mondo si muore ancora di fame. In Africa, di fronte alla catastrofe endemica, il discorso potrebbe certamente essere diverso. Ma nel Nord del mondo?).

Fin qui le domande che vorremmo rivolgere ai nostri amici e collaboratori che ne sanno più di noi sui risvolti strettamente scientifici e tecnici della questione degli ogm.

Ma i problemi non finiscono qui. In un’economia di mercato i consumatori devono essere messi in grado di operare le loro scelte con cognizione di causa, e i poteri pubblici hanno certo il dovere di tutelarli contro le frodi e le adulterazioni e di informarli e metterli in guardia contro la pubblicità fraudolenta come contro la ciarlataneria e i demagoghi. Ma alla fine il consumatore – non solo il consumatore al supermercato, ma anche quello del ristorante o della mensa aziendale – deve avere il diritto di scegliere “sovranamente”. Allo stesso modo il cittadino di una società aperta deve certo essere messo in grado dall’istruzione pubblica di affrontare il mondo e la vita facendo il miglior uso della ragione e del progresso tecnico e scientifico. Ma alla fine i cittadini di una società aperta hanno anche il diritto di essere superstiziosi, dato anche che non esiste un criterio obiettivo, che non sia arbitrariamente discriminatorio, per distinguere le superstizioni dalle sempre più multiformi credenze qualificabili invece come religiose in una società pluralistica, né esistono possibili discrimini oggettivi fra ciò che è e ciò che non è “religioso”. E i pubblici poteri, in una società libera, non hanno il compito di difendere da se stessi i cittadini maggiorenni e capaci di intendere e di volere che vogliano privarsi di alcune opportunità o perfino rinunciare, ad esempio, se lo vogliono, alla medicina moderna in favore di trattamenti “tradizionali”: farsi del male, insomma – o fare cose che gli occidentalisti come chi scrive, i più informati, la maggioranza (forse e per ora) dell’opinione pubblica, la comunità scientifica o la politica ancora raziocinante ritengano sia un farsi del male.

Come coordinare il diritto dei cittadini all’autodeterminazione, magari anche sconsiderata, con scelte pubbliche che rischiano di limitare il perimetro dell’autonomia di scelta individuale? Il quesito, come si vede, non è di quelli che vanno rivolti agli specialisti o agli scienziati soltanto.

Così come non è tema per gli scienziati soltanto quello ricorrente in cui il problema su cui si deve decidere politicamente riguarda in realtà la propensione al rischio. Non vi è nulla di più soggettivo, e quindi di più politico e libero, della propensione al rischio. Se devo viaggiare individualmente a medio raggio, posso scegliere individualmente se viaggiare in aereo, in treno o in automobile, e, se la mia propensione al rischio è bassa e viaggio spesso, sarà proprio la pericolosità del mezzo l’elemento decisivo della mia scelta.

Molto spesso, quando si tratta di decisioni politiche – cioè di decisioni che finiscono per imporsi a tutti i consociati – che devono essere basate su cognizioni scientifiche, si tende ad equivocare, come suggerisce l’uso di una locuzione – “valutazione del rischio” – che è intrinsecamente ambigua. “Valutazione” qui, se si tratta dell’esito di un’indagine scientifica, sta in sostanza per “accertamento”. Ma è solo una volta che tale accertamento sia stato effettuato da chi ha la competenza per farlo, che inizia la valutazione vera e propria, quella cioè in cui, una volta prese per buone la competenza, l’indipendenza e la probità intellettuale di chi ha effettuato la “valutazione” tecnica – una volta prese per buone la prima, la seconda e la terza – ci si deve alla fine chiedere se quel rischio, come quantificato dai tecnici sia nella misura della probabilità che l’evento dannoso si verifichi sia nella misura della gravità possibile dell’evento, valga la pena o meno di essere corso dati i benefici che comporta. (È per ragioni del genere che chi scrive finisce spesso per convenire in pratica con le conclusioni di ambientalisti talvolta perfino un po’ Fundis, della cui intuizione generale del mondo non condivide magari assolutamente nulla).

In una società in cui è scarsa la conoscenza scientifica diffusa ma sono altissime la ciarlataneria e la corruzione diffuse nella politica e nella società ad ogni livello, la confusione fra i due piani è frequente.

In tutti i casi in cui conoscenze scientifiche più o meno specialistiche devono essere poste alla base di decisioni politiche, una delle difficoltà principali, e spesso la principale, consiste nello sgombrare il campo da un lato dalla disonestà, dalla demagogia e dalla ciarlataneria populista largamente presenti nella politica contemporanea, e dall’altro dai condizionamenti, dai compromessi e dalle collusioni cui è sempre possibile che si prestino tecnici, scienziati e specialisti nei diversi campi dello scibile.

Molti dei nostri lettori avranno forse avuto occasione di vedere quei documentari in cui sono stati riproposti, a mezzo secolo o più di distanza, gli spot televisivi che l’industria del tabacco commissionava a medici più e meno illustri negli anni Cinquanta per convincere il pubblico dell’assoluta innocuità e perfino degli effetti benefici sulla salute del fumo di sigaretta, a differenza di quel che si cominciava a sospettare – e che, i processi americani degli anni scorsi hanno rivelato, le società produttrici sapevano bene già allora.

Se, nel caso di quei medici, si trattava di pura e semplice corruzione, dato che le loro carriere non dipendevano certo interamente dal consumo di tabacco, ben più insidioso è il caso di quei tecnici, ingegneri e scienziati le cui prospettive di carriera dipendono interamente dallo sviluppo del settore di cui hanno competenza, e rinunciare al quale richiederebbe loro irreparabili costi personali, in termini sia economici che di status. Pensiamo ad esempio agli ingegneri nucleari, sempre pomposamente definiti “scienziati”, che, all’epoca di Cernobyl contribuirono non poco con la loro evidente faziosità – almeno in fatto di relazioni pubbliche erano per lo più a dir poco sprovveduti – a far perdere ogni residua fiducia degli italiani nello sviluppo del nucleare. Ora, noi di nucleare, di ogm, di rigassificatori, poco sappiamo, ma di sociologia politica qualcosa sì: ricordiamo bene la lezione di Roberto Michels, che spiegava come gli interessi personali abbiano alla lunga una forte e genuina efficacia persuasiva, che porta ad esempio i leader di partito a non avere nemmeno bisogno di mentire a se stessi per autoconvincersi in perfetta buona fede dell’indispensabilità dello sviluppo della propria carriera personale per il bene del partito, del paese e dell’umanità, anche quando l’opposto sembra evidente a quasi tutti gli altri.

Non crediamo affatto che la soluzione stia semplicemente in una maggiore diffusione della conoscenza scientifica nella società, come spesso ammoniscono dalle colonne dei giornali alcuni fra i più noti e autorevoli scienziati (e non solo perché confessiamo di avere frequentato il liceo classico in un’epoca in cui i professori delle materie principali di quella scuola erano conniventi con gli studenti che, come loro stessi a suo tempo, erano poco portati per le matematiche). Che la conoscenza scientifica in Italia abbia bisogno di essere favorita e stimolata non c’è dubbio, così come non c’è dubbio che vadano stimolate le vocazioni dei giovani per la ricerca scientifica. Un paese europeo che, nell’attuale mondo globale, non investa nella ricerca scientifica è destinato a un declino precipitoso anche una volta che la Grande Crisi sarà stata superata. Ma, a parte il fatto che stimolare la ricerca richiederebbe proprio quei poderosi investimenti che altri paesi saggiamente privilegiano proprio in questo tempo di crisi e che in Italia vengono invece pressoché azzerati, non è certo imponendo uniformità nella scelta degli indirizzi di studio e finendo per inibire l’accesso a corsi di laurea in giurisprudenza, lettere, storia, scienze politiche, ecc. a chi non superi severi esami di fisica e di matematica che si favorirà l’amore e l’interesse per le conoscenze scientifiche o si otterrà il più proficuo utilizzo delle diverse vocazioni individuali a vantaggio sia degli individui stessi che della società: conoscenze acquisite così sarebbero tra l’altro dimenticate e sepolte nel giro di un anno, più radicalmente della conoscenza del greco da parte di molti di coloro che hanno frequentato il liceo classico per scarse inclinazioni matematiche.

Soprattutto, non è certo attraverso le conoscenze scientifiche acquisibili con la frequentazione della scuola media superiore che i cittadini potrebbero essere messi in grado di arbitrare dispute fra specialisti (si pensi agli scontri fra periti talvolta illustri nelle corti di giustizia) o a smascherare l’eventuale mancanza di probità intellettuale o la corruzione dell’uno o dell’altro.

Credo che agli scienziati giustamente straziati per il triste stato delle conoscenze scientifiche e della ricerca in Italia spesso sfugga che si può essere culturalmente e politicamente amici della scienza anche senza essere soggettivamente versati nello studio della matematica e della fisica. Si può parteggiare per i Lumi anche senza disporre neppure delle conoscenze scientifiche ormai superate di cui disponevano Diderot o Cattaneo nel Settecento o nell’Ottocento. Ed è impossibile che la generalità dei cittadini possa mai padroneggiare tutte le discipline sulle cui applicazioni si potrebbe prima o poi essere chiamati a decidere politicamente. Se nella nostra società si diffondono a macchia d’olio primitivismi e oscurantismi medievali, se gli spregiatori della conoscenza scientifica e del metodo scientifico si riproducono metastaticamente, se politicanti ciarlatani possono pontificare impunemente in materia di cure oncologiche, di sperimentazione e messa in commercio di farmaci, di accertamento del fine vita, questo non dipende certo dall’insufficiente numero di temi di matematica affrontati al liceo. Dipende caso mai dall’assenza di nozioni in materia di storia della scienza e della tecnologia, dal fatto che i nostri concittadini possono nutrire disprezzo per la modernità e nostalgia dell’epoca in cui i mulini erano bianchi perché non hanno la minima idea di come gli sarebbe toccato di vivere in quel contesto.

 
Da Critica liberale, n. 175-176,  maggio - giugno 2010.

 

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