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Antiproibizionismo e rispetto dell’altro

di Felice Mill Colorni

         Si ha spesso la sensazione che, per molti cattolici (e per molti islamici), la libertà religiosa consista essenzialmente nella libertà di professare la religione dei padri: è meno frequente che tali ambienti concepiscano la libertà religiosa come libera scelta individuale, che comprende anche la libertà di cambiare religione o di abbandonarla. Alla libertà di non credere e al diritto di veder attribuita pari dignità sociale all’assenza di credenze religiose è spesso riconosciuto uno status minore, quasi che la libertà religiosa “negativa” fosse una libertà “figlia di un dio minore”, non altrettanto sacra e non altrettanto intangibile.

         Un analogo atteggiamento è stato inopinatamente manifestato da parte di molti pur benemeriti antiproibizionisti nei confronti della recente normativa antifumo. Anche noi siamo sempre stati convinti antiproibizionisti. Riteniamo che non sia affare dello Stato difendere i cittadini da se stessi e che i guasti del proibizionismo – in termini di finanziamento della criminalità organizzata, di aumento della criminalità di strada, di emarginazione e devianza sociale dei tossicodipendenti, di ridotta possibilità di mitigare i danni alla loro salute – non facciano che sommarsi ai danni derivanti dal consumo di sostanze nocive: come già ebbe ad argomentare John Stuart Mill a proposito dell’alcool, e come confermò negli anni Venti l’esperienza americana. Il che peraltro non significa affatto che scuola e pubblici poteri non debbano educare i minori e informare i cittadini sui rischi e sui pericoli per la salute connessi all’utilizzo di sostanze nocive o ad altre abitudini di vita malsane o dannose (per loro e anche per il finanziamento del sistema sanitario).

         Ma perché mai la libertà di autodeterminazione degli individui dovrebbe essere tutelata soltanto quando essi scelgono di utilizzare sostanze tossiche a rischio della propria salute e non anche quando scelgono di non farlo? Se riteniamo sbagliato e controproducente che lo Stato impedisca ad un tossicodipendente di far uso di eroina se così ha deciso, non per questo riterremmo giusto consentire a quest’ultimo di iniettare la sua droga, ancorché diluita, nelle vene altrui. Se c’è consenso unanime sull’opportunità di limitare la libertà di movimento di un pugno nell’aria quando questo rischi di entrare in collisione con l’altrui naso, perché mai si dovrebbe ritenere legittimo immettere nello stesso naso, e senza il consenso del proprietario, migliaia di sostanze di cui è ormai notoriamente e indiscutibilmente accertato il carattere tossico e cancerogeno – da tre a quaranta volte più letale, in una stanza chiusa, per consenso scientifico ormai unanime, del peggior inquinamento da traffico urbano? Colpire con un pugno è illecito e avvelenare lecito? Percuotere senza neppure provocare lesioni va vietato e cagionare il cancro consentito?

E dire che è generalmente considerato socialmente inaccettabile imporre ad altri perfino immissioni che, benché non nocive, ne danneggino apprezzabilmente la qualità della vita. E infatti a nessuno viene in mente di rivendicare libertà di peto, e di costituire un’associazione di “petatori cortesi e non petatori tolleranti” («Disturbo se emetto una flatulenza?» «Ma no, si figuri, siamo tolleranti»), benché di peti, a differenza che di fumo di tabacco, non risulta sia mai morto nessuno: in questo caso non vi è neppure bisogno di sanzioni, tanto unanime è la riprovazione sociale del fenomeno, perfino quando sia incolpevolmente causato da qualche patologia.

In realtà la convinzione che sia lecito imporre il fumo di tabacco a chiunque voglia partecipare alla vita sociale del paese e che lo Stato possa vietare invece quello di canapa indiana anche nel chiuso di un’abitazione privata implica la convinzione, improntata a tradizionalismo e ad estremismo anticostruttivista, che qualunque regola fissata dallo Stato sia legittima se basata sull’uso atavico anziché sulle conoscenze, sull’uso della ragione e sul rispetto della libertà individuale. Poco importa che il tabacco uccida se il suo uso è radicato nella tradizione; lecito invece vietare la marijuana anche in privato solo perché non è parte della cultura materiale tradizionale della collettività.

Si sarà forse vagamente intuito che, per chi scrive, la nuova normativa è stata una liberazione; ma nulla ci toglie dalla testa che non pochi dei politici che hanno protestato in nome dell’antiproibizionismo non avrebbero trovato affatto proibizionista la nuova legge se non fossero, notoriamente, tabagisti accaniti.


Da Critica liberale, n. 110, dicembre 2004.


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