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Il conflitto etnico visto da Trieste

di Felice Mill Colorni

             Una lunga serie di avvenimenti susseguitisi nell’ultimo decennio ha fatto fragorosamente ritornare al centro del dibattito politico e culturale le vicende della storia recente di Trieste e del confine orientale italiano, rimosse per mezzo secolo dalla coscienza civile del paese. La fine del comunismo, la guerra nella ex Jugoslavia e la sua disintegrazione, il dibattito sull’identità nazionale italiana nei suoi rapporti con la Resistenza, con l’integrazione europea, con la globalizzazione e con le spinte secessionistiche, la polemica sui libri di testo e sull’uso politico della storia hanno improvvisamente conferito nuova “attualità” a vicende che il paese aveva dimenticato.

            Per mezzo secolo ottime ragioni di ordine geopolitico, che avevano visto paradossalmente convergere gli interessi della sinistra italiana a rimuovere una vicenda a dir poco imbarazzante e dell’Alleanza atlantica a mantenere buoni rapporti con il regime jugoslavo per preservarne il non allineamento, avevano messo la sordina a una storia tragica e tormentata. La memoria dei protagonisti, impossibilitata a confrontarsi con una mancata riflessione storica diffusa, si era autoperpetuata all’interno delle famiglie e di vasti settori della società locale senza poter essere elaborata attraverso un confronto con la storiografia accademica, con un discorso pubblico argomentato sulla storia del paese e sulla sua identità, con i valori etico-politici dell’Italia e dell’Europa democratiche. Rinchiuse fino a pochi anni fa nella soffocante e rancorosa dimensione locale, le memorie separate dei diversi attori di quelle vicende - italiani e sloveni, nazionalisti e comunisti dell’uno e dell’altro campo - si erano sedimentate in fratture politiche e culturali che avevano fatto del sistema politico triestino un unicum nella vita politica del paese.

         Per comprendere le ragioni di questa situazione bisogna forse tener conto non solo del carattere traumatico degli avvenimenti dell’ultimo secolo, non solo del grande peso demografico nella popolazione locale dei profughi istriani e dei loro discendenti, ma anche della peculiarità della cultura politica locale.

Le lotte per l’appartenenza nazionale a Trieste si erano sviluppate, come quelle dei popoli jugoslavi, all’interno del contesto statale e culturale della monarchia austroungarica ed erano state pensate all’interno delle categorie politiche e culturali proprie di quel contesto (non è un caso se molti degli irredentisti triestini che si spostavano in altre città italiane prima della Grande Guerra tendevano a riconoscersi nelle posizioni del partito nazionalista, il più culturalmente tedesco dei partiti dell’Italia prefascista). La partecipazione di Trieste, e in generale degli italiani adriatici dell'Impero austroungarico, ai moti risorgimentali era stata marginale e limitata a piccole minoranze. L'irredentismo si era sviluppato più tardi fra gli “irredenti” che nel Regno d'Italia (dove era stato a lungo patrimonio prevalente di democratici, mazziniani e liberalradicali), e quando già il Risorgimento italiano aveva esaurito buona parte della sua carica progressista e liberale; e fu ben presto partecipe, molto più che della spinta liberale e democratica che aveva concorso a motivare le guerre d'indipendenza, del clima antiliberale, vociano, vitalistico, dannunziano, antiparlamentare, antimoderno emerso a cavallo fra i due secoli, un clima cui non poterono rimanere del tutto estranei neppure gli intellettuali rimasti relativamente più legati alla tradizione democratica del Risorgimento (in versione tuttavia più mazziniana che liberale), come Slataper e Stuparich. Ad accogliere nel suo seno le nuove province fu fin dall'inizio l'Italia postbellica, nazionalista e poi fascista, nel cui imperialismo balcanico la classe dirigente triestina vedeva la più ovvia alternativa alla crisi economica determinata dalla perdita dell'enorme retroterra economico danubiano-balcanico e della funzione fino ad allora svolta dalla Trieste moderna, quella di centro finanziario, porto e emporio commerciale di uno dei più grandi e potenti Stati europei.

         Molto limitato fu, per forza di cose, anche il coinvolgimento di Trieste nella Resistenza: dopo un ventennio di politica repressiva del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (che aveva messo in pratica con l’autoritarismo e spesso con la violenza l'aspirazione all'uniformità nazionale che era stata propria dei cosiddetti "liberalnazionali" nella Trieste asburgica), dopo la sconfitta italiana nella guerra di aggressione, il movimento partigiano jugoslavo si apprestava a prendersi sanguinose rivincite, con tutto il carico di violenza indiscriminata, di rivalse sciovinistiche, di politica di potenza ed espansionista e di metodi politici stalinisti che era maturato nel corso di anni di guerra civile feroce ed efferata, e caratterizzata da forti sentimenti etnonazionalistici. Tranne i comunisti, che in nome dell'internazionalismo proletario concordavano con la politica annessionista dei partigiani jugoslavi, e tranne la piccola minoranza di democratici che organizzò un'insurrezione il 30 aprile 1945, quando già i carri armati jugoslavi erano alle porte della città, la Trieste italiana rimase estranea alla Resistenza, e vide materializzarsi, con la caduta del fascismo in Italia, non la liberazione dal dominio tedesco, ma l’antica ossessione della snazionalizzazione ad opera degli "slavi". I quaranta giorni di occupazione della città da parte dell'esercito partigiano titoista erano destinati a rimanere nei decenni successivi, nella memoria della parte maggioritaria della città, come un incubo ancor più terribile di quello rappresentato dal precedente anno e mezzo di feroce occupazione nazista e di annessione anche formale al Terzo Reich nell’ambito dell’Adriatisches Küstenland (quando Trieste fu tra l'altro sede dell'unico campo di concentramento nazista esistente in Italia).

         Anche il dopoguerra fu assorbito dalla lotta politica nazionale. Mentre il resto del paese si trovava alla prese con l'edificazione della democrazia, con la questione istituzionale, con l'elaborazione della Costituzione, con l'apprendistato delle regole della democrazia liberale, la lotta politica a Trieste fu invece quasi interamente assorbita nella questione dell'appartenenza nazionale, definita solo nel 1954 con il Memorandum di Londra che pose fine all’amministrazione angloamericana. Per tutto questo lungo periodo Trieste fu tagliata fuori dal momento più significativo per la maturazione democratico-occidentale del paese, così come era stata tagliata fuori dalla vicenda risorgimentale e da quella resistenziale. Per di più, su Trieste gravitò la tragedia dell'esodo massiccio dall'Istria e da Fiume della gran parte della popolazione di quelle terre, assegnate alla Jugoslavia in parte dal trattato di pace e in parte dal Memorandum: una vicenda come detto rimossa dalla coscienza civile del paese, e gestita negli anni del primo centro-sinistra con un paradossale disprezzo "giacobino" nei confronti dei governati da una classe politica in gran parte democristiana. Quella classe politica non si preoccupò minimamente di coinvolgere la popolazione nelle scelte realistiche che la politica internazionale dell’Italia imponeva, promosse la rimozione del passato e anche del presente (la natura autoritaria del regime jugoslavo) e pose la città di fronte al fatto compiuto quando nel 1975 furono stipulati gli accordi di Osimo fra Italia e Jugoslavia, con cui si sanzionavano definitivamente e formalmente i confini fra i due paesi (peraltro già definiti nella sostanza dal Memorandum di Londra) e si prospettava la costruzione di una enorme zona industriale comune sul Carso triestino, inizialmente prospettata quale “compenso” per la definitiva perdita dell’Istria: dal punto di vista ambientale, urbanistico, sociale (e dal punto di vista delle prospettive politiche in relazione al “dopo Tito”), si trattava di un progetto di smisurata stoltezza, la cui approvazione a scatola chiusa fu però imposta con il pretesto della grave crisi internazionale che sarebbe derivata da un eventuale rigetto degli accordi. Tale arroganza fu pagata a caro prezzo. Sorse dal nulla e si affermò come partito di maggioranza relativa la Lista per Trieste (detta anche, dal suo simbolo, "il Melone"), eterogeneo partito di protesta municipalistico, un movimento destinato ad essere egemonizzato nel giro di qualche anno dalla sua componente "liberalnazionale", fin dall'inizio prevalente, e a diventare così l'erede di questa ambigua e mai spenta tradizione politica triestina. Come sarebbe accaduto un quindicennio più tardi alla Lega Nord, facendosi forte di opinioni e di pregiudizi largamente diffusi fra la popolazione, ma che non avevano avuto fino ad allora, e da molti anni, dignità di rappresentanza politica, la LpT poteva apparire a moltissimi triestini di ogni classe sociale come il bambino che osa proclamare la nudità del Re. Uno sviluppo reso possibile anche dalla crisi della sinistra tradizionale, qui ancor più acuta che altrove per le maggiori difficoltà che il Pci incontrava a Trieste nel suo processo di rinnovamento, a causa sia delle politica annessionistica del dopoguerra, sia delle mai del tutto ricomposte fratture interne, risalenti alle contrapposizioni determinate dalla rottura fra stalinisti italiani e titoisti sloveni nel 1948.

 

         È in questa ossessione per l'identità nazionale, un'identità nazionale vista come perpetuamente minacciata dall'altrui aggressività, che si riteneva potesse essere controbilanciata solo da un'aggressività uguale o maggiore, che Trieste poteva davvero essere considerata una città "mitteleuropea": non nel senso di un idealizzato cosmopolitismo tollerante di ogni diversità linguistica, nazionale o religiosa, ma, all'opposto, nel senso della sua appartenenza culturale a quell'Europa centrorientale che è sembrata per qualche anno condannata a ritrovare un'identità comune solo nelle comuni contrapposizioni nazionalistiche e comunitaristiche. Come nelle piccole nazioni balcaniche ossessionate dal problema della propria identità, anche a Trieste sono ancor oggi normali accese dispute sulle radici più lontane, addirittura preistoriche, delle nazionalità presenti sul territorio. Ogni episodio della storia locale è spesso oggetto di dispute accanite e di un interesse addirittura morboso; lo scopo di tale interesse è tuttavia raramente quello di arricchire le proprie conoscenze o di migliorare la propria comprensione degli eventi, ma di trovare motivi di felicità nella conferma dei propri più rozzi pregiudizi, o motivi di indignazione quando questi pregiudizi vengono messi in discussione (o quando, come molto spesso accade, i media nazionali trattano temi attinenti alla storia locale con la superficialità e l'approssimazione che è loro abituale in ogni campo: ma la maggior parte dei triestini tende a vedere nella genuina e ruspante ignoranza della grande maggioranza dei giornalisti italiani le prove di una cinica campagna di disinformazione). La partecipazione emotiva, l'incapacità di distacco critico, e la mancanza di ogni sforzo diretto a conseguirlo, con cui la maggioranza dei triestini era solita riferirsi alla politica del terrore e ai massacri del dopoguerra erano assolutamente identiche a quelle mostrate da nazionalisti serbi e croati nei confronti dei massacri perpetrati da ustascia e cetnici nel corso della seconda guerra mondiale.

         Oltre e più del naturale ricambio generazionale, forse è stata proprio la guerra nella ex Jugoslavia ad aprire gli occhi di molti, a far discernere nel fino ad allora sostanzialmente indistinto “mondo slavo” identità culturali, economiche ed etico-politiche fra loro diverse (l’ignoranza in materia, come quella delle lingue slave, era rimasta fino ad allora per i più quasi un punto di orgoglio e una rassicurazione identitaria). La consapevolezza che la fine della guerra fredda aveva fatto venir meno le ingessature che da decenni rendevano sostanzialmente innocue le proprie imbambolate ossessioni, rendendo possibile a poca distanza dal confine lo scatenamento di eventi prima inimmaginabili, ha forse concorso, assieme alla consapevolezza delle prospettive che si riaprivano per l’economia locale, a determinare un approccio più sobrio e realistico e a far rivalutare le garanzie di vita civile, oltre che la sicurezza, fornite dall’assetto geopolitico consolidatosi nel dopoguerra: a far rivalutare, di fronte alla tragedia che si consumava alle porte di casa, l’appartenenza alla democrazia liberale. Di qui tra l’altro il successo, per due tornate elettorali amministrative consecutive, dell’alleanza fra il centrosinistra e il raggruppamento costituitosi attorno al Sindaco-industriale Riccardo Illy.

         Un assetto che ha anche contribuito a sciogliere alcuni nodi, ma che è tutt’altro che consolidato, legato com’è alla personalità dello stesso Sindaco (in scadenza e impossibilitato a ricandidarsi ulteriormente), e la cui sopravvivenza è anzi messa in serio pericolo dal ruolo egemone che la Lega Nord, debolissima a Trieste per il suo antinazionalismo, esercita a livello regionale sulla maggioranza polista, e che rischia di legare l’intero Nordest italiano a un pericoloso abbraccio con la Carinzia haideriana in nome del comune euroscetticismo e antioccidentalismo culturale: il che potrebbe fare nuovamente di quest’area, fra qualche mese, un bubbone pericoloso di malmostosi sentimenti etnicisti e isolazionisti, capace forse di contagiare altre regioni (Croazia o Slovacchia in primo luogo) che solo a fatica e da poco hanno finalmente intrapreso un deciso avvicinamento alla democrazia liberale e all’economia di mercato.

         E questo bubbone potrebbe anche assumere forme istituzionali molto concrete, se i disegni di creazione di entità sovraregionali comprendenti le tre aree di confine dovessero materializzarsi. In questo caso, al problema Austria, si aggiungerebbe, per l’Italia e per l’Europa, quello di un’entità istituzionale dalle competenze e dalle attribuzioni vaghe o malcerte, la cui classe politica dirigente si sentirebbe però certamente legittimata a dar voce agli umori antioccidentali e antieuropei che nelle valli alpine dei versanti settentrionali e meridionali, occidentali e orientali, si vanno da tempo raggrumando. Ravvivando e dando ulteriore rilievo e sviluppo ai peggiori risvolti culturali del caso austriaco, sottolineandone la vitalità e la forza espansiva, e con il rischio di contagiare e respingere nuovamente nello smarrimento politico e civile vaste aree dell’Europa extracomunitaria, e magari anche altre aree marginali interne alla stessa Ue che si sentono minacciate dalle incertezze e dal disagio prodotti dalla “supermodernità”.

 

         Decenni di colpevole rimozione di una tragedia nazionale avevano scaricato sulle spalle dei più di trecentomila esuli dall’Istria e da Fiume buona parte del conto pagato dall’Italia per la guerra fascista, senza che neppure la loro sventura venisse riconosciuta e condivisa dal paese (e spesso, nel passato, addirittura accollando loro buona parte delle responsabilità di quanto accaduto): un sacrificio ignorato quanto la persecuzione delle popolazioni slave ricomprese nei confini italiani fra le due guerre, rimossa a sua volta in nome del mito degli “italiani brava gente”. Il concitato dibattito svoltosi in questi ultimi mesi sulla questione delle “foibe” ha allegramente ignorato il lavoro portato avanti da anni da un gruppo di storici triestini di vario orientamento, e ha preferito dar voce senza mediazioni alla memoria delle vittime, come già detto pietrificata e inibita a qualunque forma di elaborazione consapevole dalla pluridecennale rimozione precedente. Così, dopo essere stata ignorata per mezzo secolo anche dall’alta cultura, questa tragica vicenda (che tende ad essere amplificata quantitativamente in modo fantastico) rischia forse ora, agli occhi degli ignari liceali del Duemila, di assurgere a chiave di lettura ed elemento prioritario dell’intera storia della seconda guerra mondiale e della storia italiana del XX secolo.

         Ma, anche se, passata l’attuale fase di “euforia revisionistica”, questa pagina di storia dovesse semplicemente tornare ad essere pacatamente acquisita alla coscienza del paese, alcuni nodi culturali che essa rivela meriterebbero ancora di essere affrontati.

         Non è raro che le storie e le realtà di confine rivelino molto sull’identità nazionale di un paese. Sull’Italia e sulla “Mitteleuropa” slava e tedesca la storia del confine orientale italiano potrebbe suggerire qualche riflessione analoga a quelle suggerite dall’Alsazia alla Francia e alla Germania.

         Anche al confine di Trieste, infatti, si sono scontrate e in parte ancor oggi si scontrano non solo diverse nazionalità, ma anche due diverse concezioni della nazionalità. Ed è per questa ragione che queste vicende hanno forse qualcosa da dire anche sull’identità degli uni, degli altri e dell’Europa in via di costruzione.

         Su questo confine, come su quello alsaziano, si sono scontrate una concezione dell’identità nazionale basata sull’appartenenza culturale e linguistica e una basata sull’idea romantica, tedesca e, attraverso la mediazione “mitteleuropea” dell’Impero asburgico, anche slava, della nazione come etnia. Le teorizzazioni di Federico Chabod e di Ernest Renan si sono fatte qui storia, cronaca e conflitto spesso sanguinoso. In nome della discendenza etnica, si sono visti talvolta negli avversari politici dei “traditori”. Questa contrapposizione tra concezioni della nazionalità ha anche profondamente inciso sulle contrapposte rappresentazioni del conflitto e della storia ampiamente coltivate sui due lati del confine. Se da parte italiana si è esercitata fra le due guerre una politica imperialista che si richiamava all’opera “civilizzatrice” di Roma e di Venezia (anche la concezione “culturale” della nazionalità può essere lo strumento di politiche di potenza aggressive e profondamente illiberali), e si è poi lamentato che la guerra perduta abbia sradicato popolazioni che risiedevano da sempre nelle terre passate alla Jugoslavia, da parte jugoslava si è spesso vista la stessa presenza della Trieste cosmopolita ma maggioritariamente italiana, mercantile, laica e moderna, cresciuta artificiosamente per scelta politica dell’Impero asburgico in mezzo a un contado compattamente slavo (e certo incomparabilmente più slavo della penisola istriana), come una presenza in qualche modo illegittima; amata e desiderata perché centro, anche, della nascente consapevolezza culturale slovena, in un’epoca in cui non esistevano nella Slovenia contadina insediamenti urbani di importanza paragonabile; artificialmente bloccata dalla prima guerra mondiale nella sua “naturale” fusione con il retroterra slavo; sottratta illecitamente dopo la sua “liberazione” da parte dei partigiani al suo naturale destino da una decisione occidentale ingiusta e arrogante. Sicché non sono solo molti italiani nostalgici ad aver visto per decenni nell’Istria, in Fiume e perfino nella Dalmazia (dove gli italiani furono sempre una minoranza urbana, quasi ovunque quantitativamente molto piccola) le proprie “terre perdute”. Anche molti sloveni, tuttora autorevolissimi, vedono “terre perdute” fino all’immaginario confine “naturale” dell’Isonzo. E ancora non è stata risolta la controversia (fortunatamente mai trascesa) sui confini terrestri e marittimi fra Slovenia e Croazia.

         Nonostante le regole di buon comportamento imposte dai processi di integrazione in corso, i paesi successori della ex Jugoslavia (anche la Slovenia, in cui i primi fermenti indipendentistici giovanili avevano pure avuto negli anni ’80 un carattere molto più libertario, individualista e occidentalista che nazionalista, e tanto meno etnico) si sono dati ordinamenti costituzionali che qualificano i nuovi Stati su base soprattutto etnica (nonostante la citazione rituale delle minoranze nazionali). In Italia una concezione etnica dell’identità nazionale, pur dissonante (almeno finora) con quella fatta propria dalle istituzioni e dall’alta cultura, si fa strada sotto la spinta dei timori e delle insicurezze provocate dalla globalizzazione e dall’immigrazione, e per opera di demagoghi che potrebbero essere considerati dei banditi se solo fossero lontanamente consapevoli di quel che stanno maneggiando - come del resto accade anche altrove in Europa: perfino in settori non irrilevanti della società e della politica francesi.

         Si è molto discusso, negli ultimi anni, e dopo che il tema era stato del tutto trascurato per decenni, dell’identità nazionale degli italiani, del rapporto fra questa e il processo di formazione dello Stato unitario, del ruolo della tradizione religiosa, del rapporto fra nazione e “patria”, della sua “partitizzazione” indotta dal fascismo prima e dalla Resistenza poi, del debole senso civico, di un’identità più legata a fattori culturali che civici.

         Certo fornire l’Italia di una mappa di valori civili condivisi è importante e urgente. Ma forse bisognerebbe interrogarsi sulla possibilità di pensare davvero le identità nazionali in termini svincolati dal riferimento a valori etico-politici specifici, che avevano caratterizzato nella storia le culture dei diversi paesi dell’Europa occidentale, ma che non possono più essere considerati peculiari dell’uno piuttosto che dell’altro paese di quest’area, perché ormai questi paesi si riconoscono in un patrimonio comune di valori fondamentali condivisi. Condivisi, ma che storicamente non sono il prodotto corale e comune di tutti i paesi europei: autoctoni per alcuni, merce di importazione più o meno consapevole per altri. Non è un caso che i paesi più dotati di patriottismo “civico” siano quelli che hanno maggiormente concorso a dare i natali alla democrazia liberale europea. Un problema particolarmente acuto per i paesi postcomunisti, ma rilevante anche, in diversa misura, per l’Italia, per la Germania, per l’Austria. Un problema che il venir meno del Grande Altro sovietico, in contrapposizione al quale la comune identità liberale dell’Europa occidentale si era venuta unificando nell’ultimo mezzo secolo, ha reso particolarmente intrattabile.

         Un problema che probabilmente non sarà facile affrontare finché si continuerà a pensare che solo le nazioni storicamente date siano il luogo “naturale” di esercizio della democrazia. Di fronte alla tentazione di difendersi dalle sfide del presente rinchiudendosi in piccoli mondi, omogenei come “masi chiusi”, potrà forse sembrare anacronistico riproporre l’Europa liberale come dimensione necessaria per la riscoperta di un’identità etico-politica comune. Ma le alternative saggiamente prospettate non sembrano dotate di molto maggior realismo.

 

Da Lettera Internazionale, edizione italiana, n. 67/2001.

 

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